La mostra a Ca’ Foscari Viaggio onirico tra Venezia e Rostov negli edifici in macerie di Koshlyakov
come assistere, inermi e senza poter intervenire, al disfacimento delle esafore del piano nobile; a quello di colonne, balconi, finestre, porte, tetto, abbaini che, man mano, si deformano, poco prima del crollo, con la facciata che pare sbriciolarsi ed essere inghiottita dal Canal Grande. Siamo dinanzi al Palazzo (2017) di Valery Koshlyakov, uno dei 39 lavori esposti a Venezia (sino al 29 luglio) a Ca’ Foscari dall’artista russo, a cura di Danilo Eccher. Assemblaggi di cartoni, carte da imballo, dipinti a tempera, tele, acrilici, polistirene che danno vita a quadri e sculture (Non smettiamo di costruire l’utopia).
Opere di grande formato, con soggetti classici monumentali. «Visti» come attraverso una lente deformante, danno l’impressione di essere dinanzi ad un’arte visionaria in cui i palazzi di Mosca, Gorkij City — nella regione di Nizhny Novgorod —, Parigi, Roma, ecc., riescano a narrare la loro storia, prima di ridursi in macerie. E, poi, c’è quel senso di architettonicamente grandioso, colossale — di «gigantismo» come viene definito — che richiama i complessi moscoviti, dove talvolta si ha l’impressione che un palazzo non sia altro che la somma di dieci eguali appiccicati insieme. E c’è anche quel senso del teatro che in Koshlyakov deriva dalla sua formazione. Nato nel 1962 (a Salsk, Rostov), nella regione meridionale della Russia, all’Accademia d’arte si è specializzato in scenografia e come scenografo ha lavorato nei teatri di Rostov e di Mosca.
Nella biografia di Koshlyakov si legge che a 26 anni, nel 1988 (tre anni dopo l’inizio della perestroika di Gorbaciov e un anno prima della caduta del muro di Berlino) egli ha aderito al movimento «Arte o Morte», un sodalizio «che riuniva i giovani artisti di una nuova stagione espressiva» e L’opera Palazzo (2017) fa parte dei 39 lavori di Valery Koshlyakov esposti a Venezia fino al 29 luglio
che il nome — richiamando «il motto di Che (“Patria o Muerte”) — indicava lo spirito rivoluzionario che animava questi giovani protagonisti».
Fa un po’ sorridere che nell’88 — sia pure in Russia — un motto simile potesse avere una corrispondenza reale e non fosse da considerare semplicemente come uno slogan sic et simpliciter. Che Guevara, infatti, non ha nulla a che fare con questi giovani artisti, liberi di muoversi e di fare quello che volevano. Tant’è che Koshlyakov lascia Mosca per Berlino e Parigi dove può tranquillamente depositare il suo Cremlino qualche attimo prima che la fantasia possa trasformarlo in macerie e ridurre nello stesso stato Notre Dame e Place de la Concorde.
I soggetti di Koshlyakov non sono scelti a caso. Mosca, ma anche San Pietroburgo ed altre metropoli. «Così, nel suo viaggio psicoanalitico all’interno della grande cultura russa ed europea, Koshlyakov potrà di volta in volta fingersi affrescatore michelangiolesco, tricker dadaista, scultore di scarti, architetto della memoria», scrive Stefano Casciani in catalogo (Silvana). Mostra in Italia, curatore
italiano, editore italiano, testi solo in inglese: il massimo dello snobismo.
L’artista russo prende fior da fiore. Edifici storici, edificiemblema, edifici eredi di un patrimonio mitico, leggendario — icone, insomma: spettacolari e drammatiche — da confrontare con l’attualità o, facendo un salto indietro, con le avanguardie russe dei primi del Novecento.
Tutto il suo percorso artistico, precisa Danilo Eccher, oscilla «fra l’eleganza di una cultura nobile e la durezza di una realtà materica brutale, consapevole e orgoglioso del ricco patrimonio storico ma anche attento ai rigurgiti di una contemporaneità spietata, abile nel dominio di forme e spazi ma pronto a sporcarsi le mani con i linguaggi più ruvidi: Koshlyakov è sensibile poeta e guerriero barbaro».
Gioco intelligente. Colte nella Oscilla tra l’eleganza di una cultura nobile e la durezza di una realtà materica brutale
loro architettonica bellezza e immerse in un cielo di nubi, la maggior parte delle immagini sono subito riconoscibili. L’atmosfera onirica richiama quelle di un artista del Seicento e di un pittore contemporaneo. Parliamo di Monsù Desiderio — il cui vero nome era François Didier de Nomé (1593-1624), pittore lorenese che svolse quasi tutta la sua attività a Napoli — e dell’aristocratico Fabrizio Clerici (1913-1993), nato a Milano e morto a Roma.
I palazzi di Monsù Desiderio — amato da André Breton che lo considerava un precursore del Surrealismo, e al quale Fausta Garavini ha dedicato, un paio d’anni addietro, un romanzo (La vita di Monsù Desiderio, Bompiani), finalista al Premio Campiello — hanno la stessa inquietudine e il senso del mistero di quelli di Koshlyakov. Di Clerici, invece, «umanista di tipo rinascimentale in ritardo di secoli sui contemporanei» che assomigliava a Voltaire, l’artista russo sembra aver captato quel senso di immobilità assoluta, carica di suggestione, altrimenti detta metafisica.