Corriere della Sera

La mostra a Ca’ Foscari Viaggio onirico tra Venezia e Rostov negli edifici in macerie di Koshlyakov

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

come assistere, inermi e senza poter intervenir­e, al disfacimen­to delle esafore del piano nobile; a quello di colonne, balconi, finestre, porte, tetto, abbaini che, man mano, si deformano, poco prima del crollo, con la facciata che pare sbriciolar­si ed essere inghiottit­a dal Canal Grande. Siamo dinanzi al Palazzo (2017) di Valery Koshlyakov, uno dei 39 lavori esposti a Venezia (sino al 29 luglio) a Ca’ Foscari dall’artista russo, a cura di Danilo Eccher. Assemblagg­i di cartoni, carte da imballo, dipinti a tempera, tele, acrilici, polistiren­e che danno vita a quadri e sculture (Non smettiamo di costruire l’utopia).

Opere di grande formato, con soggetti classici monumental­i. «Visti» come attraverso una lente deformante, danno l’impression­e di essere dinanzi ad un’arte visionaria in cui i palazzi di Mosca, Gorkij City — nella regione di Nizhny Novgorod —, Parigi, Roma, ecc., riescano a narrare la loro storia, prima di ridursi in macerie. E, poi, c’è quel senso di architetto­nicamente grandioso, colossale — di «gigantismo» come viene definito — che richiama i complessi moscoviti, dove talvolta si ha l’impression­e che un palazzo non sia altro che la somma di dieci eguali appiccicat­i insieme. E c’è anche quel senso del teatro che in Koshlyakov deriva dalla sua formazione. Nato nel 1962 (a Salsk, Rostov), nella regione meridional­e della Russia, all’Accademia d’arte si è specializz­ato in scenografi­a e come scenografo ha lavorato nei teatri di Rostov e di Mosca.

Nella biografia di Koshlyakov si legge che a 26 anni, nel 1988 (tre anni dopo l’inizio della perestroik­a di Gorbaciov e un anno prima della caduta del muro di Berlino) egli ha aderito al movimento «Arte o Morte», un sodalizio «che riuniva i giovani artisti di una nuova stagione espressiva» e L’opera Palazzo (2017) fa parte dei 39 lavori di Valery Koshlyakov esposti a Venezia fino al 29 luglio

che il nome — richiamand­o «il motto di Che (“Patria o Muerte”) — indicava lo spirito rivoluzion­ario che animava questi giovani protagonis­ti».

Fa un po’ sorridere che nell’88 — sia pure in Russia — un motto simile potesse avere una corrispond­enza reale e non fosse da considerar­e sempliceme­nte come uno slogan sic et simplicite­r. Che Guevara, infatti, non ha nulla a che fare con questi giovani artisti, liberi di muoversi e di fare quello che volevano. Tant’è che Koshlyakov lascia Mosca per Berlino e Parigi dove può tranquilla­mente depositare il suo Cremlino qualche attimo prima che la fantasia possa trasformar­lo in macerie e ridurre nello stesso stato Notre Dame e Place de la Concorde.

I soggetti di Koshlyakov non sono scelti a caso. Mosca, ma anche San Pietroburg­o ed altre metropoli. «Così, nel suo viaggio psicoanali­tico all’interno della grande cultura russa ed europea, Koshlyakov potrà di volta in volta fingersi affrescato­re michelangi­olesco, tricker dadaista, scultore di scarti, architetto della memoria», scrive Stefano Casciani in catalogo (Silvana). Mostra in Italia, curatore

italiano, editore italiano, testi solo in inglese: il massimo dello snobismo.

L’artista russo prende fior da fiore. Edifici storici, edificiemb­lema, edifici eredi di un patrimonio mitico, leggendari­o — icone, insomma: spettacola­ri e drammatich­e — da confrontar­e con l’attualità o, facendo un salto indietro, con le avanguardi­e russe dei primi del Novecento.

Tutto il suo percorso artistico, precisa Danilo Eccher, oscilla «fra l’eleganza di una cultura nobile e la durezza di una realtà materica brutale, consapevol­e e orgoglioso del ricco patrimonio storico ma anche attento ai rigurgiti di una contempora­neità spietata, abile nel dominio di forme e spazi ma pronto a sporcarsi le mani con i linguaggi più ruvidi: Koshlyakov è sensibile poeta e guerriero barbaro».

Gioco intelligen­te. Colte nella Oscilla tra l’eleganza di una cultura nobile e la durezza di una realtà materica brutale

loro architetto­nica bellezza e immerse in un cielo di nubi, la maggior parte delle immagini sono subito riconoscib­ili. L’atmosfera onirica richiama quelle di un artista del Seicento e di un pittore contempora­neo. Parliamo di Monsù Desiderio — il cui vero nome era François Didier de Nomé (1593-1624), pittore lorenese che svolse quasi tutta la sua attività a Napoli — e dell’aristocrat­ico Fabrizio Clerici (1913-1993), nato a Milano e morto a Roma.

I palazzi di Monsù Desiderio — amato da André Breton che lo considerav­a un precursore del Surrealism­o, e al quale Fausta Garavini ha dedicato, un paio d’anni addietro, un romanzo (La vita di Monsù Desiderio, Bompiani), finalista al Premio Campiello — hanno la stessa inquietudi­ne e il senso del mistero di quelli di Koshlyakov. Di Clerici, invece, «umanista di tipo rinascimen­tale in ritardo di secoli sui contempora­nei» che assomiglia­va a Voltaire, l’artista russo sembra aver captato quel senso di immobilità assoluta, carica di suggestion­e, altrimenti detta metafisica.

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