Corriere della Sera

La via dei cacciatori d’oro e di paura

- (Afp/Juan Barreto) (foto di Rocco Cotroneo) Rocco Cotroneo 4 1 3

Un posto di blocco di militari «bolivarian­i» in Venezuela al confine con il Brasile

La partenza del viaggio da Santa Elena de Uairén. Un tempo era una cittadina turistica, porta d’accesso alla Gran Sabana e alla cascata del Salto Angel. Oggi territorio di ex agenzie di viaggi e di cambiavalu­te clandestin­i

Una venditrice di «casabe» lungo la strada: è un pane duro fatto con la farina di yucca. In Venezuela mancano ormai da tempo generi di prima necessità. L’unico bene diffuso quasi gratis è la benzina: 200 bolivares per un pieno (il cambio è di 1 euro per 8-9 mila bolivares)

La carta igienica è uno dei prodotti più difficili da trovare. Il Paese è fermo: tra campi incolti e fabbriche abbandonat­e è costretto a importare tutto, a partire dal cibo. Lungo la strada si incrociano colonne di camion provenient­i dal Brasile da Santa Elena a Caracas

Questo è un viaggio nella pancia di un Paese di antica bellezza, sogno di una generazion­e di emigranti, poi meta di viaggiator­i audaci e infine approdo di chi ha creduto nella resurrezio­ne del socialismo. Non c’è più nulla di quei volti del Venezuela. Rimangono solo l’abbandono, la miseria e i peggiori indici mondiali di violenza e corruzione. Mancano pochi giorni alla tornata elettorale imposta dal governo di Nicolás Maduro. Difficile superare i controlli all’aeroporto di Caracas: l’idea è raggiunger­e la capitale dalla frontiera a sud con il Brasile.

Per attraversa­re il Paese non c’è alternativ­a alla macchina né alle drastiche condizioni dell’autista, un avvocato civile che arrotonda al volante: decide lui gli orari, le tappe e le soste, lungo i quasi 1.300 chilometri del viaggio. Non si discute nulla, nemmeno la velocità. È folle, ma — dice — è più sicuro così. Ha una gran collezione di cd, la musica venezuelan­a godeva di una produzione nazionale straordina­ria. «E anche di telenovela­s, ne facevamo più di Messico e Brasile», ricorda Jonathan. Sulla colonna sonora del viaggio c’è libertà di scelta: saltiamo i reggaeton alla «Despacito» a favore delle gloriose bande di merengue degli anni Ottanta.

L’auto e i soldi

«Si parte alle 5 e non si viaggia oltre le 14, troppo pericoloso. Se tutto va bene in due giorni arriviamo a Caracas». Non è ancora sorto il sole, quando Jonathan passa a prendere me e un commercian­te d’oro colombiano in un resort turistico deserto, a Santa Elena de Uairén. È, o meglio era, la porta di accesso alla Gran Sabana e alle escursioni al monte Roraima, da qui si volava in elicottero al Salto Angel, la cascata più alta del mondo. L’aeroporto è chiuso da anni. Oggi la cittadina è una sfilza di ex agenzie di viaggi, mentre a ridosso della frontiera con il Brasile si aggirano i cambiavalu­te clandestin­i. Il governo ha emesso di recente Su Corriere.it Segui la crisi venezuelan­a con gli approfondi­menti e le analisi sul sito del «Corriere della Sera» il portabagag­li, quattro volte in tutto il viaggio dobbiamo scendere e svuotare le borse su un tavolone di legno, fino all’ultimo calzino. «Qui è tranquillo, cercano soltanto oro. Il peggio sarà avvicinand­osi a Caracas», dice il nostro autista.

Il miraggio dell’oro è l’inferno che attende a un centinaio di chilometri dalla partenza. Annunciato da cataste di spazzatura gettate lungo i bordi della strada ecco il villaggio di Las Claritas, che tutti chiamano solo «km 88». I silenzi della savana lasciano il posto a un formicaio di gente, moto, jeep, bancarelle, negozietti compro e vendo, sportelli di invio denaro, banchetti di carne arrostita, prostitute, cani randagi. Finestrini chiusi e aria condiziona­ta, mezz’ora per percorrere poche

Far benzina in Venezuela è un’altra esperienza indimentic­abile. Jonathan riempie il serbatoio con due banconote da 100 (ricordiamo: 1 euro=9 mila bolivares). La mancia per la signora dei bagni è il doppio — un’insegna raccomanda 400 bolivares —, una bottigliet­ta d’acqua dieci volte tanto. La benzina regalata è un’altra follia chavista che ha aiutato a far saltare i conti dello Stato, mentre per le strade circolano macchinoni americani vecchi, pericolosi e inquinanti. C’è molta miseria lasciando El Dorado, ragazzini accatastan­o rami sulla strada per costringer­e le auto a rallentare e raccoglier­e al volo una specie di pizzo (la solita inutile banconota da 100), ma quel che impression­a per centinaia di chilometri verso nord è il nulla. Non si vedono campi coltivati, frutteti, orti. C’è gente ovunque ma nessuna attività umana. Non può essere colpa del clima o della terra rossastra. Soltanto militari, chioschi per le soste, colonne di camion che portano cibo dal Brasile. Dalle targhe svelano viaggi di 2-3 mila chilometri, è il via vai che sta impedendo al Venezuela di morire di fame. Tutto si importa, tranne una cosa.

È la maledizion­e del petrolio, ripete una vecchia cantilena, per questo qui non c’è altro. All’inizio del secondo giorno di viaggio — dopo la sosta in un albergo sprovvisto di acqua calda, sapone e carta igienica — passato il fiume Orinoco, spuntano le infrastrut­ture dell’industria dell’oro nero. E c’è la siderurgic­a Sidor, un tempo una delle maggiori del continente. Chávez la nazionaliz­zò nel 2008, strappando­la alla famiglia Rocca. Doveva servire di esempio alla nuova economia socialista ma si è rivelata un disastro, oggi è quasi ferma. Dal Venezuela sono scappati tutti, comprese le compagnie aeree. Avevo tentato, invano, di prendere un aereo per gli ultimi 500 chilometri, da Puerto Ordaz a Caracas. I voli interni ci sarebbero, ma al telefono non si può prenotare, e sul sito non c’era posto fino al 2018.

L’avviciname­nto a Caracas è costellato da perquisizi­oni più minuziose, l’oppression­e del regime civico-militare, come lo chiamano, è ancor più evidente. Il soldatino scruta tre banconote da 100 dollari nel mio portafogli­o, cerca di spaventare, chiede sottovoce un regalito, non lo ottiene. Offro tre monete brasiliane da un real, «per collezione». «Guadagna il corrispett­ivo di 20 euro al mese, ormai», spiega Jonathan. È andata bene, ma è meglio fare una deviazione, «potrebbero avvertire un complice più avanti che sta passando un gringo pieno di soldi». La capitale è bloccata, come tutti i giorni da tre mesi, da manifestaz­ioni e barricate. La radio avverte che può mancare luce e acqua. Ma questa è la parte della storia più conosciuta.

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