La via dei cacciatori d’oro e di paura
Un posto di blocco di militari «bolivariani» in Venezuela al confine con il Brasile
La partenza del viaggio da Santa Elena de Uairén. Un tempo era una cittadina turistica, porta d’accesso alla Gran Sabana e alla cascata del Salto Angel. Oggi territorio di ex agenzie di viaggi e di cambiavalute clandestini
Una venditrice di «casabe» lungo la strada: è un pane duro fatto con la farina di yucca. In Venezuela mancano ormai da tempo generi di prima necessità. L’unico bene diffuso quasi gratis è la benzina: 200 bolivares per un pieno (il cambio è di 1 euro per 8-9 mila bolivares)
La carta igienica è uno dei prodotti più difficili da trovare. Il Paese è fermo: tra campi incolti e fabbriche abbandonate è costretto a importare tutto, a partire dal cibo. Lungo la strada si incrociano colonne di camion provenienti dal Brasile da Santa Elena a Caracas
Questo è un viaggio nella pancia di un Paese di antica bellezza, sogno di una generazione di emigranti, poi meta di viaggiatori audaci e infine approdo di chi ha creduto nella resurrezione del socialismo. Non c’è più nulla di quei volti del Venezuela. Rimangono solo l’abbandono, la miseria e i peggiori indici mondiali di violenza e corruzione. Mancano pochi giorni alla tornata elettorale imposta dal governo di Nicolás Maduro. Difficile superare i controlli all’aeroporto di Caracas: l’idea è raggiungere la capitale dalla frontiera a sud con il Brasile.
Per attraversare il Paese non c’è alternativa alla macchina né alle drastiche condizioni dell’autista, un avvocato civile che arrotonda al volante: decide lui gli orari, le tappe e le soste, lungo i quasi 1.300 chilometri del viaggio. Non si discute nulla, nemmeno la velocità. È folle, ma — dice — è più sicuro così. Ha una gran collezione di cd, la musica venezuelana godeva di una produzione nazionale straordinaria. «E anche di telenovelas, ne facevamo più di Messico e Brasile», ricorda Jonathan. Sulla colonna sonora del viaggio c’è libertà di scelta: saltiamo i reggaeton alla «Despacito» a favore delle gloriose bande di merengue degli anni Ottanta.
L’auto e i soldi
«Si parte alle 5 e non si viaggia oltre le 14, troppo pericoloso. Se tutto va bene in due giorni arriviamo a Caracas». Non è ancora sorto il sole, quando Jonathan passa a prendere me e un commerciante d’oro colombiano in un resort turistico deserto, a Santa Elena de Uairén. È, o meglio era, la porta di accesso alla Gran Sabana e alle escursioni al monte Roraima, da qui si volava in elicottero al Salto Angel, la cascata più alta del mondo. L’aeroporto è chiuso da anni. Oggi la cittadina è una sfilza di ex agenzie di viaggi, mentre a ridosso della frontiera con il Brasile si aggirano i cambiavalute clandestini. Il governo ha emesso di recente Su Corriere.it Segui la crisi venezuelana con gli approfondimenti e le analisi sul sito del «Corriere della Sera» il portabagagli, quattro volte in tutto il viaggio dobbiamo scendere e svuotare le borse su un tavolone di legno, fino all’ultimo calzino. «Qui è tranquillo, cercano soltanto oro. Il peggio sarà avvicinandosi a Caracas», dice il nostro autista.
Il miraggio dell’oro è l’inferno che attende a un centinaio di chilometri dalla partenza. Annunciato da cataste di spazzatura gettate lungo i bordi della strada ecco il villaggio di Las Claritas, che tutti chiamano solo «km 88». I silenzi della savana lasciano il posto a un formicaio di gente, moto, jeep, bancarelle, negozietti compro e vendo, sportelli di invio denaro, banchetti di carne arrostita, prostitute, cani randagi. Finestrini chiusi e aria condizionata, mezz’ora per percorrere poche
Far benzina in Venezuela è un’altra esperienza indimenticabile. Jonathan riempie il serbatoio con due banconote da 100 (ricordiamo: 1 euro=9 mila bolivares). La mancia per la signora dei bagni è il doppio — un’insegna raccomanda 400 bolivares —, una bottiglietta d’acqua dieci volte tanto. La benzina regalata è un’altra follia chavista che ha aiutato a far saltare i conti dello Stato, mentre per le strade circolano macchinoni americani vecchi, pericolosi e inquinanti. C’è molta miseria lasciando El Dorado, ragazzini accatastano rami sulla strada per costringere le auto a rallentare e raccogliere al volo una specie di pizzo (la solita inutile banconota da 100), ma quel che impressiona per centinaia di chilometri verso nord è il nulla. Non si vedono campi coltivati, frutteti, orti. C’è gente ovunque ma nessuna attività umana. Non può essere colpa del clima o della terra rossastra. Soltanto militari, chioschi per le soste, colonne di camion che portano cibo dal Brasile. Dalle targhe svelano viaggi di 2-3 mila chilometri, è il via vai che sta impedendo al Venezuela di morire di fame. Tutto si importa, tranne una cosa.
È la maledizione del petrolio, ripete una vecchia cantilena, per questo qui non c’è altro. All’inizio del secondo giorno di viaggio — dopo la sosta in un albergo sprovvisto di acqua calda, sapone e carta igienica — passato il fiume Orinoco, spuntano le infrastrutture dell’industria dell’oro nero. E c’è la siderurgica Sidor, un tempo una delle maggiori del continente. Chávez la nazionalizzò nel 2008, strappandola alla famiglia Rocca. Doveva servire di esempio alla nuova economia socialista ma si è rivelata un disastro, oggi è quasi ferma. Dal Venezuela sono scappati tutti, comprese le compagnie aeree. Avevo tentato, invano, di prendere un aereo per gli ultimi 500 chilometri, da Puerto Ordaz a Caracas. I voli interni ci sarebbero, ma al telefono non si può prenotare, e sul sito non c’era posto fino al 2018.
L’avvicinamento a Caracas è costellato da perquisizioni più minuziose, l’oppressione del regime civico-militare, come lo chiamano, è ancor più evidente. Il soldatino scruta tre banconote da 100 dollari nel mio portafoglio, cerca di spaventare, chiede sottovoce un regalito, non lo ottiene. Offro tre monete brasiliane da un real, «per collezione». «Guadagna il corrispettivo di 20 euro al mese, ormai», spiega Jonathan. È andata bene, ma è meglio fare una deviazione, «potrebbero avvertire un complice più avanti che sta passando un gringo pieno di soldi». La capitale è bloccata, come tutti i giorni da tre mesi, da manifestazioni e barricate. La radio avverte che può mancare luce e acqua. Ma questa è la parte della storia più conosciuta.