C’È CONFUSIONE NEL PD SUL RUOLO DELLE DONNE AL LAVORO E IN FAMIGLIA
La politica riscopre la maternità. Il disagio delle mamme lavoratrici, dee Kali impegnate anche nel sonno a tamponare falle e trovare soluzioni, ha un’ampia narrazione. Ancora poco raccontata, invece, la solitudine delle casalinghe forzate, costrette a rinunciare al lavoro da un sistema fiscale e dei servizi che penalizza l’impiego delle mamme. I partiti hanno capito che trovare risposte vuol dire guadagnare consenso. Molto ha fatto discutere in questi giorni il nome del nuovo dipartimento «mamme» creato dal Pd. Quali sono gli obiettivi? E i papà? La responsabile, Titti Di Salvo, ha chiarito: «Il punto è creare le condizioni perché la maternità sia una reale libera scelta». Sacrosanto. Oggi il vero lusso è appendere il fiocco alla porta. Le lavoratrici non hanno abbastanza energie per permettersi il secondo figlio. Alle casalinghe mancano le entrate. Insomma: impossibile parlare di maternità e paternità senza affrontare la questione del lavoro e dell’organizzazione. Pare convincente in questo senso l’impostazione data dal presidente dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive: «Parlare di conciliazione tra famiglia e lavoro è di per sé limitativo, sarebbe più giusto adoperarsi per una reale compatibilità tra lavoro e privato — ha detto Maurizio Del Conte —. Questo riguarda donne e uomini. Perciò sono necessarie politiche unisex». Se la buona notizia è che natalità, maternità e paternità sono entrate nella prima pagina dell’agenda della politica, la cattiva è che c’è ancora confusione sul lessico, oltre che sulla sostanza del da farsi. Per la dirigente pd Patrizia Prestipino fare più figli è necessario per tutelare la razza. Qualcuno ha notato poi come nei giorni scorsi la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità Maria Elena Boschi abbia parlato di scuola materna invece che di scuola dell’infanzia. Maternage nuova bandiera del Pd? Il vocabolario conta. Ma ancora di più pesano le leggi di Bilancio. Sarà illuminante vedere come i numerosi bonus oggi in campo verranno rifinanziati/rimodulati. E con quale investimento di risorse. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it i conoscevano gli altri, ciascuno a modo suo». Scomodare Pirandello torna utile per decifrare il disamore italiano per Emmanuel Macron, dopo l’overdose di applausi che ha accompagnato la sua elezione.
C’è una sequenza di fatti che giustificano delusione e irritazione, ma contano anche percezioni ingannevoli fin dall’inizio. È di queste ore lo scontro plateale sui cantieri navali di Saint Nazaire, dopo che l’italiana Fincantieri ha preso il controllo della società. L’operazione, avvallata all’epoca della presidenza Hollande, è ora congelata dalla pretesa di Parigi di rientrare in gioco con un ruolo paritario nell’azionariato. Non è nemmeno esclusa un’ipotesi di nazionalizzazione e sarà interessante in questo caso analizzare le motivazioni dell’europeista/liberale Macron.
Le posizioni si sono irrigidite. Trattandosi di una partita che è al tempo stesso di prestigio e di alto profilo industriale, lo scontro rischia di spegnere sul nascere aspettative forse eccessive sul modo in cui s’intende l’amicizia fra i nostri due Paesi.
La storia dei rapporti industriali e finanziari fra Italia e Francia del resto si ripete e, come spesso accaduto, a senso unico, cioè nel senso del capitalismo come lo insegnano a Parigi. Prima vengono interessi nazionali, poi regole di mercato e competitività. Dalla moda all’alimentare, dalla finanza all’energia, fino alle recenti scorribande di Vincent Bolloré, l’elenco delle conquiste francesi — purtroppo anche in settori di alto interesse strategico — sarebbe lunghissimo. Prima della « battaglia navale», nell’incontro di Saint Cloud (luogo caro a Bonaparte I e III) sulla Libia, il presidente francese si è voluto imporre come playmaker del processo di pace, rafforzando il ruolo del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, rispetto al presidente Sarraj, riconosciuto dall’Onu e interlocutore privilegiato dell’Italia. La Francia sceglie la realtà di rapporti di forza che vanno profilandosi nel caos terroristico/tribale dopo lo sciagurato intervento militare di Sarkozy e la caduta di Gheddafi.
Molto andrebbe raccontato sull’incerto fronte libico e nel contesto di divergenti interessi politici ed energetici, ma la sensazione — al di là degli elogi per l’azione del governo italiano — è che Macron voglia giocare una partita a tutto campo, per consolidare peso politico e militare nel Nord Africa e nel Sahel.
In ottica francese, l’Italia, nonostante la forte presenza dell’Eni, rischia di avere un ruolo di seconda fila nella Libia di domani.
Prima di Saint Cloud, c’era stata un’evidente disparità di valutazioni sulla questione dei migranti. Macron aveva avuto parole di solidarietà per la drammatica emergenza che l’Italia si trova ad affrontare da sola, ma il distinguo fra «migranti economici» e richiedenti asilo, per quanto giuridi- camente indiscutibile, è suonato un po’ irrealistico al tempo degli sbarchi di massa e quotidiani. Di fatto, porte chiuse.
L’irritazione da parte italiana su diversi fronti è dunque palpabile.
È però inutile piangere sul fatto che la musica non cambi nell’era Macron. L’errore, casomai, è stato l’entusiasmo acritico e un po’ provinciale per un giovane leader che prima di essere una grande speranza per l’Europa (e per l’Italia) è una straordinaria risorsa Prospettiva Allora era sbagliato l’entusiasmo per la vittoria, ora è sbagliata la delusione
per la Francia. Ancora più fuorviante considerare Macron un modello esportabile o imitabile, come si è orecchiato nei talk show alla ricerca del «Macron italiano».
Entusiasmo prima e delusione oggi fanno perdere di vista ragioni di fondo all’origine di rapporti complicati. Macron non sarà ostile o benevolo a seconda di come si sveglia la mattina o se, come si dice, andrà in vacanza nel Belpaese.
Lo sarà in base alla nostra capacità di «fare sistema», di difendere e contrapporre nostri interessi, di garantire una continuità d’impegni e relazioni che — senza nulla togliere agli sforzi del premier Gentiloni — può essere data soltanto da coesione e stabilità politica sul medio periodo.
Macron è abile e determinato, ma è il prodotto di un sistema politico e istituzionale che gli garantisce ampi poteri decisionali e un apparato di competenze e professionalità educato al primato dell’interesse nazionale.
Non è, come qualcuno pensa, il dottor Jekyll e non è nemmeno, come qualcuno ha creduto, un socialista mascherato e mansueto (come peraltro non era nemmeno Hollande). È un gaullista vero, «geneticamente» attualizzato.
Macron crede sinceramente nell’Europa, ma crede che, dopo Brexit, la Francia — unica potenza nucleare europea, con seggio al Consiglio di Sicurezza — possa essere più determinante che in passato, anche nel rapporto con la Germania. La trionfale accoglienza a Parigi per Putin e Trump è stata una prova generale delle aspirazioni francesi.
Il Paese deve affrontare problematiche sociali e di finanza pubblica non molto diverse dalle nostre, che tuttavia sono coperte, come la polvere sotto il tappeto, dal prestigio militare e diplomatico e — quando c’è — dal carisma del presidente. Le elezioni tedesche, a settembre, prefigurano un nuovo mandato per Angela Merkel, probabilmente in coabitazione con i liberali.
Stabilità dei governi e credibilità di leader e classi dirigenti stanno diventando moneta corrente a Parigi e Berlino. Ma di questo passo, il motore franco tedesco potrebbe diventare una tenaglia per tutti gli altri.