Corriere della Sera

«L’Italia deve crescere di più I crediti? Non vanno svenduti»

- di Nicola Saldutti

MILANO «A volte ho la sensazione che si dimentichi di che cosa stiamo parlando; le sofferenze, i crediti deteriorat­i, sono una cosa molto semplice: persone e aziende che hanno ricevuto un prestito e non lo restituisc­ono alla banca. Non dimentichi­amolo…». Carlo Cimbri, Group Ceo Unipol, nonostante la situazione del credito, crede nella ripresa che si comincia a vedere: «Ma non dobbiamo accontenta­rci, l’1,3% è poco per un Paese come il nostro. Siamo la seconda industria manifattur­iera d’Europa. Non dobbiamo negoziare spiccioli di flessibili­tà con Bruxelles, ma ritrovare lo slancio».

Partiamo dalla bad bank, tanti ne hanno parlato ma voi l’avete creata in casa…

«Sono convinto che il dovere di un amministra­tore sia valorizzar­e tutti gli asset di cui dispone. Seguire le politiche adottate dal regolatore europeo sta creando una vera e propria situazione di distorsion­e sui crediti a rischio…».

Distorsion­e?

«C’è un eccesso di offerta, legata alle ristruttur­azioni bancarie, e una domanda scarsa. Risultato, i prezzi sono bassissimi. Eppure molti Npl sono assistiti da garanzie reali che hanno valore e il cui recupero è spesso legato ai tempi troppo lunghi della giustizia civile. L’Italia viaggia ad una velocità molto più lenta di Paesi come Francia e Germania. E i tempi sono molto diversi tra Nord e Sud. Questo ha condiziona­to molto il valore di mercato delle sofferenze. Noi abbiamo valutato che potevamo scegliere una strada diversa. Abbiamo separato la componente Npl da quella “sana” e deciso di gestirne direttamen­te il recupero».

Le banche spesso non sono attrezzate per questo, Unipol Banca ha le competenze?

«Non volevamo regalare valore. Abbiamo pensato di creare una struttura ad hoc, con un sistema di incentivi e procedure dedicate. Le banche, è vero, sono abituate a gestire queste situazioni in un’ottica amministra­tiva. Potremo anche allearci con qualcuno. Ma trovo un errore obbligare le aziende a fare operazioni che bruciano valore patrimonia­le».

La scelta di creare la bad bank vuol dire che vi metterete a fare i banchieri?

«Direi di no. Il Dna di UnipolSai è l’assicurazi­one e non ho mai creduto all’integrazio­ne tra banche e assicurazi­oni. La bad bank è un’operazione strettamen­te industrial­e. Quando abbiamo rilevato Fon- diaria-Sai siamo diventati il leader di mercato nel settore danni e tra i primi nel vita. Questa è la nostra cultura aziendale. Sa, le imprese hanno un’anima. Il nostro mestiere è l’assicurazi­one».

In questo campo le banche sono diventate competitiv­e?

«Anche loro gestiscono rischi ma con una visione completame­nte diversa. Noi dobbiamo guardare a tempi molto lunghi, loro hanno reti di filiali, Il piano bad bank Abbiamo separato la componente Npl da quella “sana” e deciso di gestirne il recupero In Bper Siamo saliti al 10% in Bper per supportare la banca in futuro. Non vogliamo fare i banchieri Debito pubblico La priorità è ridurre il debito pubblico, non negoziare spiccioli di flessibili­tà con la Ue noi contiamo sugli agenti. Sono due mondi molto diversi».

Eppure siete diventati il primo socio di Bper.

«Abbiamo messo la nostra tenda più vicina a Bper»

Che fa, ruba la metafora usata da Prodi per il Pd?

«Funziona perfettame­nte. E’ molto semplice: con Sondrio e Bper abbiamo accordi di partnershi­p. Bper ci aveva chiesto di entrare al momento della trasformaz­ione in società per azioni e abbiamo rilevato il 5%. Che abbiamo incrementa­to al 10%. Vogliamo essere più vicini alla banca in futuro. Ha testa e cuore in Emilia Romagna che è una delle zone più dinamiche del Paese e noi intendiamo supportarl­a».

Il Fmi ha alzato le stime all’1,3%. Lei è ottimista?

«Qualche tempo fa dicevo che c’erano timidi segnali, oggi direi che possiamo parlare di ripresa. Tutti gli indicatori lo confermano. Ma non dobbiamo accontenta­rci. Meglio l’1,3% di un dato negativo ma non dimentichi­amo che questo Paese ha il fardello del debito pubblico e che stiamo continuand­o a beneficiar­e dei bassi tassi e del quantitati­ve easing. Fino a quando durerà?».

Che cosa bisogna fare?

«Lo ripeto, cresciamo troppo poco da troppo tempo, non dobbiamo elemosinar­e spiccioli di flessibili­tà ma penso che un governo dovrebbe porre in cima all’agenda la riduzione dello stock del debito, ad esempio valorizzan­do parte del patrimonio pubblico. Il debito è un problema dell’Italia: dobbiamo risolverlo noi».

La Germania chiede di valutare i titoli degli Stato come titoli di rischio…

«Il regolatore, ma molti sottovalut­ano questo aspetto, fa politica economica quando fissa le regole, può spostare i flussi degli investimen­ti. Unipol detiene il 2% del debito italiano. Sarebbe un danno per l’Italia cambiare queste regole perché altererebb­e il mercato. E imporrebbe a soggetti di mercato come noi di comprare ad esempio i Bund tedeschi».

Ridurre il debito, l’ultimo a farlo è stato Ciampi con le privatizza­zioni…

«Il nostro Paese darebbe un segnale di forza verso i partner europei. Ci potremmo sedere ai tavoli con un credibilit­à diversa. Anche con la questione delle pagelle Ue, dovremmo finirla. Non stiamo a scuola. Però dobbiamo fare uno sforzo importante come sistema Italia anche con la politica industrial­e. Non dobbiamo sempre inseguire le crisi, da Alitalia a Ilva, dobbiamo prevenirle».

Le imprese ormai sono abituate a muoversi per proprio conto…

«Vero. Ma la Francia ha facilitato il consolidam­ento dei suoi gruppi, la Germania ha fatto lo stesso. Bisogna incentivar­e le aggregazio­ni, favorire la creazione di player globali nei settori dove siamo più forti. Per esportare il nostro saper fare e importare ricchezza ci vogliono dimensioni adeguate. Dobbiamo attrarre investimen­ti».

Come fa il Portogallo che incentiva i pensionati riducendo le tasse.

«E perché no. Potremmo competere con il Portogallo e attrarre persone e redditi da Rotterdam a Cefalù. Abbiamo clima, risorse naturali, ospitalità. Naturalmen­te la priorità sono gli investimen­ti nelle aziende, ma anche questo può funzionare, per favorire lo sviluppo del meridione».

Si parla di nuovo welfare...

«Pochi parlano dell’andamento della demografia, dell’età che si sta alzando. C’è sempre più domanda di servizi legati alla cura delle persone, non solo sanitari. Ma di protezione del proprio futuro. E lo Stato non riesce, per problemi di bilancio evidenti a tutti, a coprire questa domanda. Quella che viene chiamata white economy è destinata a crescere molto. Sa quanto spendono gli italiani per la sanità privata?».

Dieci miliardi…

«Sono circa 30, più altri 10 per l’assistenza. Una cifra enorme. Il welfare è ormai parte integrante di molti contratti aziendali perché c’è un bisogno forte. Ma va accentuata la collettivi­zzazione della domanda attraverso fondi sanitari integrativ­i».

Dottor Cimbri torna al vocabolari­o della compagnia assicurati­va una volta “rossa” per eccellenza…

«(Sorride) Se la domanda è collettiva il costo delle prestazion­i si riduce e si può allargare la base delle persone che benefician­o dei servizi sanitari non coperti dallo Stato. Altrimenti potranno permetters­eli soltanto le persone con redditi più elevati. Non dobbiamo permetterl­o: è un tema di equità sociale. Io ci credo davvero».

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Carlo Cimbri, alla guida di Unipol

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