«L’Italia deve crescere di più I crediti? Non vanno svenduti»
MILANO «A volte ho la sensazione che si dimentichi di che cosa stiamo parlando; le sofferenze, i crediti deteriorati, sono una cosa molto semplice: persone e aziende che hanno ricevuto un prestito e non lo restituiscono alla banca. Non dimentichiamolo…». Carlo Cimbri, Group Ceo Unipol, nonostante la situazione del credito, crede nella ripresa che si comincia a vedere: «Ma non dobbiamo accontentarci, l’1,3% è poco per un Paese come il nostro. Siamo la seconda industria manifatturiera d’Europa. Non dobbiamo negoziare spiccioli di flessibilità con Bruxelles, ma ritrovare lo slancio».
Partiamo dalla bad bank, tanti ne hanno parlato ma voi l’avete creata in casa…
«Sono convinto che il dovere di un amministratore sia valorizzare tutti gli asset di cui dispone. Seguire le politiche adottate dal regolatore europeo sta creando una vera e propria situazione di distorsione sui crediti a rischio…».
Distorsione?
«C’è un eccesso di offerta, legata alle ristrutturazioni bancarie, e una domanda scarsa. Risultato, i prezzi sono bassissimi. Eppure molti Npl sono assistiti da garanzie reali che hanno valore e il cui recupero è spesso legato ai tempi troppo lunghi della giustizia civile. L’Italia viaggia ad una velocità molto più lenta di Paesi come Francia e Germania. E i tempi sono molto diversi tra Nord e Sud. Questo ha condizionato molto il valore di mercato delle sofferenze. Noi abbiamo valutato che potevamo scegliere una strada diversa. Abbiamo separato la componente Npl da quella “sana” e deciso di gestirne direttamente il recupero».
Le banche spesso non sono attrezzate per questo, Unipol Banca ha le competenze?
«Non volevamo regalare valore. Abbiamo pensato di creare una struttura ad hoc, con un sistema di incentivi e procedure dedicate. Le banche, è vero, sono abituate a gestire queste situazioni in un’ottica amministrativa. Potremo anche allearci con qualcuno. Ma trovo un errore obbligare le aziende a fare operazioni che bruciano valore patrimoniale».
La scelta di creare la bad bank vuol dire che vi metterete a fare i banchieri?
«Direi di no. Il Dna di UnipolSai è l’assicurazione e non ho mai creduto all’integrazione tra banche e assicurazioni. La bad bank è un’operazione strettamente industriale. Quando abbiamo rilevato Fon- diaria-Sai siamo diventati il leader di mercato nel settore danni e tra i primi nel vita. Questa è la nostra cultura aziendale. Sa, le imprese hanno un’anima. Il nostro mestiere è l’assicurazione».
In questo campo le banche sono diventate competitive?
«Anche loro gestiscono rischi ma con una visione completamente diversa. Noi dobbiamo guardare a tempi molto lunghi, loro hanno reti di filiali, Il piano bad bank Abbiamo separato la componente Npl da quella “sana” e deciso di gestirne il recupero In Bper Siamo saliti al 10% in Bper per supportare la banca in futuro. Non vogliamo fare i banchieri Debito pubblico La priorità è ridurre il debito pubblico, non negoziare spiccioli di flessibilità con la Ue noi contiamo sugli agenti. Sono due mondi molto diversi».
Eppure siete diventati il primo socio di Bper.
«Abbiamo messo la nostra tenda più vicina a Bper»
Che fa, ruba la metafora usata da Prodi per il Pd?
«Funziona perfettamente. E’ molto semplice: con Sondrio e Bper abbiamo accordi di partnership. Bper ci aveva chiesto di entrare al momento della trasformazione in società per azioni e abbiamo rilevato il 5%. Che abbiamo incrementato al 10%. Vogliamo essere più vicini alla banca in futuro. Ha testa e cuore in Emilia Romagna che è una delle zone più dinamiche del Paese e noi intendiamo supportarla».
Il Fmi ha alzato le stime all’1,3%. Lei è ottimista?
«Qualche tempo fa dicevo che c’erano timidi segnali, oggi direi che possiamo parlare di ripresa. Tutti gli indicatori lo confermano. Ma non dobbiamo accontentarci. Meglio l’1,3% di un dato negativo ma non dimentichiamo che questo Paese ha il fardello del debito pubblico e che stiamo continuando a beneficiare dei bassi tassi e del quantitative easing. Fino a quando durerà?».
Che cosa bisogna fare?
«Lo ripeto, cresciamo troppo poco da troppo tempo, non dobbiamo elemosinare spiccioli di flessibilità ma penso che un governo dovrebbe porre in cima all’agenda la riduzione dello stock del debito, ad esempio valorizzando parte del patrimonio pubblico. Il debito è un problema dell’Italia: dobbiamo risolverlo noi».
La Germania chiede di valutare i titoli degli Stato come titoli di rischio…
«Il regolatore, ma molti sottovalutano questo aspetto, fa politica economica quando fissa le regole, può spostare i flussi degli investimenti. Unipol detiene il 2% del debito italiano. Sarebbe un danno per l’Italia cambiare queste regole perché altererebbe il mercato. E imporrebbe a soggetti di mercato come noi di comprare ad esempio i Bund tedeschi».
Ridurre il debito, l’ultimo a farlo è stato Ciampi con le privatizzazioni…
«Il nostro Paese darebbe un segnale di forza verso i partner europei. Ci potremmo sedere ai tavoli con un credibilità diversa. Anche con la questione delle pagelle Ue, dovremmo finirla. Non stiamo a scuola. Però dobbiamo fare uno sforzo importante come sistema Italia anche con la politica industriale. Non dobbiamo sempre inseguire le crisi, da Alitalia a Ilva, dobbiamo prevenirle».
Le imprese ormai sono abituate a muoversi per proprio conto…
«Vero. Ma la Francia ha facilitato il consolidamento dei suoi gruppi, la Germania ha fatto lo stesso. Bisogna incentivare le aggregazioni, favorire la creazione di player globali nei settori dove siamo più forti. Per esportare il nostro saper fare e importare ricchezza ci vogliono dimensioni adeguate. Dobbiamo attrarre investimenti».
Come fa il Portogallo che incentiva i pensionati riducendo le tasse.
«E perché no. Potremmo competere con il Portogallo e attrarre persone e redditi da Rotterdam a Cefalù. Abbiamo clima, risorse naturali, ospitalità. Naturalmente la priorità sono gli investimenti nelle aziende, ma anche questo può funzionare, per favorire lo sviluppo del meridione».
Si parla di nuovo welfare...
«Pochi parlano dell’andamento della demografia, dell’età che si sta alzando. C’è sempre più domanda di servizi legati alla cura delle persone, non solo sanitari. Ma di protezione del proprio futuro. E lo Stato non riesce, per problemi di bilancio evidenti a tutti, a coprire questa domanda. Quella che viene chiamata white economy è destinata a crescere molto. Sa quanto spendono gli italiani per la sanità privata?».
Dieci miliardi…
«Sono circa 30, più altri 10 per l’assistenza. Una cifra enorme. Il welfare è ormai parte integrante di molti contratti aziendali perché c’è un bisogno forte. Ma va accentuata la collettivizzazione della domanda attraverso fondi sanitari integrativi».
Dottor Cimbri torna al vocabolario della compagnia assicurativa una volta “rossa” per eccellenza…
«(Sorride) Se la domanda è collettiva il costo delle prestazioni si riduce e si può allargare la base delle persone che beneficiano dei servizi sanitari non coperti dallo Stato. Altrimenti potranno permetterseli soltanto le persone con redditi più elevati. Non dobbiamo permetterlo: è un tema di equità sociale. Io ci credo davvero».