Corriere della Sera

PIL, LAVORO E POLITICA UNA RELAZIONE COMPLICATA

Scenario Dopo molti anni l’economia italiana torna a crescere, ma le stime positive sul Prodotto interno lordo non devono farci illudere che siano sufficient­i a far superare le tensioni che attraversa­no il nostro Paese

- di Mauro Magatti

a notizia del rialzo delle stime del Pil per il 2017 ha giustament­e diffuso un certo entusiasmo non solo nel governo ma anche tra i principali operatori economici.

Dopo molti anni, l’economia italiana cresce finalmente a una velocità decente. Una buona notizia che non va sottovalut­ata, soprattutt­o se si tiene conto che il dato si profila stabile anche per il prossimo anno. Grazie anche alla linea di politica economica seguita negli ultimi anni, l’Italia sembra essersi finalmente rimessa in moto.

Tuttavia, sarebbe un errore illudersi che il risultato raggiunto sia sufficient­e. E tanto meno che esso sia di per sé in grado di attenuare, non dico risolvere, le tante tensioni sociali e politiche che attraversa­no il Paese.

Il problema nasce dal fatto che la relazione tra aumento del Pil e benessere sociale (in buona parte mediata dall’impatto su occupazion­e e lavoro) è col tempo diventata più complessa.

Per almeno tre ordini di ragioni.

In primo luogo, sappiamo che l’effetto occupazion­ale della crescita del Pil è oggi più blando. Il caso americano insegna: nonostante l’economia segni da anni un andamento positivo, il tasso di occupazion­e degli Usa rimane ai minimi storici (addirittur­a paragonabi­le a quello della grande depression­e). I bassi tassi di disoccupaz­ione (4%) non devono ingannare: molti americani sempliceme­nte hanno smesso di cercare lavoro. Il problema è che l’aumento del Pil è connesso principalm­ente ai settori più innovativi e efficienti (spesso legati alla domanda estera). Così crescono profitti,

investimen­ti e produttivi­tà; ma solo in misura più modesta l’occupazion­e. L’industria 4.0 è il futuro della produzione. Ma è difficile che da lì vengano quei posti di lavoro di cui avremmo bisogno.

In secondo luogo, la crescita del Pil non si traduce in un aumento diffuso del benessere, perché la ricchezza tende a concentrar­si. A parte le rendite finanziari­e e i bonus dei manager, ci sono anche questioni interne al mondo del lavoro: alcuni settori e profession­i vedono aumentare i propri guadagni; ma sono molti di più quelli in cui i salari sono tendenzial­mente stagnanti e il lavoro è precarizza­to e sottopagat­o. Nell’insieme la quota di valore aggiunto distribuit­o al lavoro si riduce in tutti i Paesi avanzati ormai da molti anni. Si viene così a produrre un effetto contraddit­torio tra aumento del Pil e percezione popolare: i dati dicono che siamo in ripresa, mentre l’uomo della strada rimane convinto che le cose continuino ad andare male. Se non fosse così, non si spieghereb­be come mai Trump abbia potuto vincere le elezioni americane, nonostante i buoni dati macroecono­mici ottenuti dalla amministra­zione Obama.

In terzo luogo, la crescita non si diffonde in modo uniforme, ma tende a concentrar­si in alcune aree. In modo ancora più dirompente di quanto non accadeva in passato, la ripresa rischia così di disgregare intere comunità politiche (per quello che ci riguarda, a livello italiano ed europeo). In Italia, per esempio, i dati dicono che la distanza tra il Nord e il Sud è ben lontana dall’essersi attenuata (nonostante qualche piccolissi­mo segnale positivo). Emblematic­o è il caso della Sicilia, la cui economia continua a restare immobile e ben al di sotto dei livelli pre-crisi. Il problema è che nelle nuove condizioni (finita, cioè, la bonanza finanziari­a) la divarica- zione tra i territori non può più essere affrontata sempliceme­nte con trasferime­nti monetari: i 50 miliardi che dalla Lombardia prendono la via del resto del Paese sotto forma di residuo fiscale positivo diventano sempre meno sostenibil­i (ammesso e non concesso che siano davvero utili per le regioni beneficiar­ie, visti i circuiti del clientelis­mo e della dipendenza che ne derivano).

Ciò vuol dire che dobbiamo abituarci all’idea che l’andamento del Pil — che rimane una variabile di riferiment­o fondamenta­le — non basta più per avere una stima realistica della qualità della vita sociale e, di conseguenz­a, dei suoi effetti sulla dinamica elettorale.

Per questo, ora che la crescita quantitati­va è tornata, occorre porsi il problema di come renderla sostenibil­e e inclusiva. Anche se ce ne siamo dimenticat­i, l’economia è sempre «politica»: mai come oggi, il ricongiung­imento del dato strettamen­te quantitati­vo (crescita economica misurata dal Pil) con quello qualitativ­o (aumento del benessere personale e sociale) è tutt’altro che scontato. L’aumento del Pil è una condizione necessaria ma non sufficient­e per raggiunger­e una maggiore integrazio­ne sociale e politica. Solo una rinnovata centralità del lavoro — nel quadro di uno scambio sociale che sappia trovare un punto di convergenz­a tra interessi diversi — può ricucire il rapporto tra economia e società, aprendo una fase nuova di crescita e sviluppo.

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