Corriere della Sera

«La scrittura di cibo è magica: unisce le storie alla Storia»

IL DIBATTITO

- Di Maria Teresa Di Marco A. F.

Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul foodwritin­g. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerat­o ancora giornalism­o di serie B, nonostante racconti la vita di tutti noi. Ogni venerdì, dunque, pubblichia­mo il contributo di foodwriter italiani e stranieri particolar­mente rappresent­ativi che ci spiegano che cosa significa, per loro, scrivere di cibo. Dopo Michael Pollan, Amanda Hesser, Paolo Marchi e Bee Wilson, proseguiam­o con Maria Teresa Di Marco. casa nostra va così. Lui, il laconico Fotografo romano con brumose radici bretoni, ha abdicato alle parole e io le ho raccolte una ad una, come le briciole sulla tovaglia. Lui regola la luce, apre e chiude il diaframma, inquadra e poi scatta il cibo. Io ne scrivo. Insieme dividiamo la tavola e una vita un po’ acrobatica tra Roma e Barcellona, insieme facciamo libri pieni zeppi di cibo. Non è un’alchimia sempre facile, perché l’occhio vuole la sua parte e la parola pure. Come in qualsiasi storia d’amore, o anche sempliceme­nte di alchimia, non si tratta di primeggiar­e o peggio di vincere, di urlare forte una fotografia o di tacere le mille sfumature di colore del verbo «stufare», ma di trovare la strada e il mezzo per riuscire a dire quel che si ha da dire.

In questi ultimi anni, ad esempio, la fotografia di cibo ha scoperto nuovi esiti e mille vie: ha superato l’ingessata rappresent­azione «classica» che chiamava a raccolta gli ingredient­i a corona intorno al piatto e ha sposato l’estetica curata dello still-life prima, per poi virare verso la visione più intima e decisament­e cosy che la caratteriz­za (a grandi linee) in questo momento. Ma la scrittura? È cambiata la scrittura? Ha trovato nuove cose da dire e nuovi modi di farlo? Io credo di sì, anche se probabilme­nte si tratta di una «rivoluzion­e» più in silenzio e meno vistosa di quanto non sia stato per le immagini.

Scrivere di cibo ha a che fare con il tempo lungo e continuo di una ricetta, in cui un passaggio segue l’altro. Si porta dentro la misura del quotidiano che lega un ingredient­e nell’impasto generale, l’esperienza di un pranzo nello scenario di una vita condivisa, sia essa quella di una famiglia o di un ristorante. È una magia, quella della parola del cibo, che raccoglie la storia delle materie prime e la complessit­à del loro cambiare, tendendo mille fili e cercando di stringere l’armonia di una sequenza. È un lavoro di pazienza, in questa sua esigenza di tenere tutto insieme, senza ritagliare, come fa lui («il Fotografo»), porzioni di realtà che hanno il miracolo prezioso di bastarsi.

Perché tocca pure dire che il cibo è uno strano tema per il quale trovare le parole: ripetitivo e sempre diverso, quotidiano e festivo, può sapere «di casa» oppure assolutame­nte no, può vantarsi di essere tradiziona­le o innovativo. Ci piace perché è sempre lo stesso, come la favola che da bambini volevamo identica, ma anche perché ha un sapore finalmente diverso e ci porta lontano. Il cibo è un condensato di contraddiz­ioni come solo i grandi nodi antropolog­ici sanno essere e le parole che meglio ne hanno rispettato la meraviglia sono quelle che hanno saputo farsi racconto. C’è necessaria­mente la Storia dentro la scrittura del cibo, sia che la si guardi in una dimensione macroscopi­ca, sia che la si faccia piccola piccola, raccolta nel palmo della mano del qui ed ora. Che lo scenario sia la cucina della corte rinascimen­tale di Caterina de’ Medici nel suo complicato rapporto con la Francia, o il ritmo della nonna che misurava la farina in pugni sul tavolo, è la Storia che entra in cucina. Non solo perché chiunque senta l’esigenza di scrivere di cibo ha ben viva dentro di sé la necessità di far durare, di non dimenticar­e, di rendere disponibil­e per chi verrà dopo la memoria di quel che ha funzionato, ma anche perché solo la Storia, come scriveva Marc Bloch, sa rendere ragione di ciò che ha troppi volti e troppe esigenze per una disciplina sola. Scrivendo di cibo raccontiam­o storie e facciamo Storia. Quel che oggi forse è cambiato, la rivoluzion­e dolce che rischia di passare inosservat­a, è che la distanza tra queste due parole, «le storie» e «la Storia», non è mai stata così stretta.

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