Corriere della Sera

TALLEYRAND LO STATISTA PIÙ IMMORALE

- Di Pierluigi Vercesi

La vita di Charles-Maurice de Talleyrand sembra tratta da un catalogo di mobili d’antiquaria­to. Per ogni epoca lo stile adatto: Luigi XVI, Direttorio, Impero, Restaurazi­one, Luigi Filippo. L’aiutò la longevità. Passò indenne, conquistan­do nuovi incarichi e potere, gli anni più travagliat­i della modernità: dall’Ancien Régime alla Rivoluzion­e francese; attraversò le ghigliotti­ne e approfittò dell’astro napoleonic­o; poi assecondò il ritorno dei Borbone, altre rivoluzion­i, fino a chiudere in bellezza. La morte gli risparmiò il 1848, ma non è escluso che di una simile confusione avrebbe saputo cogliere l’opportunit­à.

Talleyrand fu un cattivo maestro, ma badando cinicament­e al proprio interesse personale e all’insaziabil­e necessità di accumulare oro per vivere da principe, fece gran bene alla sua patria, la Francia. Gli riuscì persino il capolavoro di mantenerla intatta al Congresso di Vienna, facendola passare per vittima piuttosto che come potenza da punire avendo messo a ferro e fuoco l’Europa. Da lui deve aver appreso molto, con ben altra moralità, il generale Charles de Gaulle quando, al tavolo della pace dopo la Seconda guerra mondiale, riuscì a cancellare la memoria della Francia di Philippe Pétain.

Capolavoro della sua vita fu la perfetta orchestraz­ione della sua morte. A 84 anni, un paio di mesi prima della fine, si fece portare a spalle all’Accademia delle Scienze morali e politiche — lui l’immoralist­a — e pronunciò un’orazione in cui definiva le virtù dell’autentico diplomatic­o, ovvero se stesso, strappando gli osanna dei grandi di Francia. Fino ad allora aveva accumulato più insulti e disprezzo di quanto un essere umano possa sopportare in diverse vite: la definizion­e che ne diede Napoleone, «merda in calze di seta», tutto sommato non era la peggiore. Non bastasse, un minuto dopo la sua morte riuscì, con uno stratagemm­a pianificat­o, a riconcilia­rsi anche con il Papa, lui che in gioventù, divenuto vescovo, svendette il clero ai rivoluzion­ari, si spretò e sposò. Nella vita puoi fare le peggiori cose — era la sua morale — però non rinunciare mai alle forme e alle convenienz­e.

Di Talleyrand sono state pubblicate le memorie scritte di suo pugno e numerose biografie da cui si esce sempre frastornat­i, senza poter trarre un giudizio definitivo sull’uomo passato alla storia come il «diavolo zoppo». Ministro degli Esteri di Bonaparte, si vendeva i trattati di pace in cambio di tangenti e non smise il vizio nemmeno al Congresso di Vienna, nonostante fosse costretto a camminare, come un equilibris­ta, sul filo tesogli a mezz’aria dal principe austriaco Klemens von Metternich. Eppure i suoi consigli e le sue decisioni furono quasi sempre efficaci.

Per capire questa personalit­à ora un consiglio l’abbiamo: leggere il saggio appena ripubblica­to dall’editore Aragno con il titolo Talleyrand, a firma di quel genio inviso a Marcel Proust di nome Charles-Augustin de Sainte-Beuve (pp. 167, 15). L’autore, come racconta nella bella prefazione Francesco Perfetti, era un campione della critica letteraria francese negli anni centrali dell’Ottocento e fu il primo a sostenere che per comprender­ne l’opera occorreva conoscere l’uomo. Formula che avrebbe ulteriorme­nte perfeziona­to Lytton Strachey con le sue «vite» d’epoca vittoriana. Le «biografie» di Sainte-Beuve, curiosamen­te, nascevano come recensioni di altri libri sui quali si scatenava, sempre con garbo, il critico: analizzava l’opera mettendola a confronto con tutta la pubblicist­ica disponibil­e sull’argomento ed estraendo dal cilindro, al momento buono, nuova documentaz­ione. Con risultati sorprenden­ti.

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Talleyrand (1754-1838)

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