Corriere della Sera

Bettiza, la penna cosmopolit­a

Corrispond­ente acuto e scrittore affascinan­te pensava in tutte le principali lingue europee Capì in anticipo che l’Urss non poteva durare

- Di Aldo Cazzullo alle pagine

Enzo Bettiza, scomparso all’età di 90 anni, diventò un giornalist­a importante perché fu il primo corrispond­ente occidental­e da Mosca a scrivere che l’Unione Sovietica aveva rotto con la Cina, e la frattura nel mondo comunista avrebbe consentito all’America di vincere la guerra fredda. Qualche anno dopo, nel 1966, Montanelli annotò nei suoi Diari che Bettiza era sicuro della sconfitta del comunismo, di cui il grande Indro dubitava. E già basterebbe questo a dare la misura del livello intellettu­ale dell’uomo, e del declino del giornalism­o («oggi dovrei mettere su YouTube un video mentre ballo, ma ho quasi novant’anni e non me lo posso permettere…»).

Bettiza però non era soltanto un analista preveggent­e, «un anticomuni­sta non viscerale ma informato». Era una persona fascinosa e uno scrittore meraviglio­so. Una sola pagina di Esilio, il libro con cui vinse il Campiello, vale l’intera produzione di certi «giovani scrittori». Sapeva rendere affascinan­ti pure le descrizion­i dei luoghi e dei personaggi, che restituiva con rapide pennellate: di lui si vedeva che in gioventù aveva dipinto, come di Bocca si capiva che aveva sparato. I due, come spesso accade tra i grandi, non si amavano: Enzo non perdonò mai a Giorgio di aver scritto, in una corrispond­enza da Macao, «c’è qui anche il decadente Bettiza…». Ma Bettiza fece di peggio con alcuni tra i grandi direttori che aveva avuto, Giulio De Benedetti alla «Stampa» e Piero Ottone al «Corriere», di cui ha lasciato ritratti feroci in Via Solferino, una delle sue opere migliori. Stretto ma difficile il rapporto con Montanelli: «Stare con Indro era come andare sulle montagne russe. Cadeva in depression­i profonde. Poi saltava su come un grillo, scriveva un fondo in dieci minuti, telefonava alla madre novantenne. Si innervosiv­a quando conversavo in croato con Frane Barbieri: “Basta parlare ostrogoto!”».

Preferiva il «contadino ucraino» Krusciov al «sussiegoso bostoniano» Kennedy

Bettiza del resto era un conversato­re straordina­rio in quasi tutte le lingue europee. Non solo pensava in francese a Parigi, in tedesco a Berlino, in spagnolo a Madrid. Sosteneva di sognare nella lingua della persona che sognava: in russo con le contesse Poliakova, madre e figlia, che lo ospitarono a Mosca dopo il licenziame­nto decretato da De Benedetti (ma Enzo negava la voce secondo cui le avrebbe sedotte entrambe); in serbo-croato con la tata; in dialetto veneto con il padre. «Lei è slavo» gli disse una volta un incauto conduttore tv. «Io non sono uomo di nazioni o di etnie, sono uomo di imperi» replicò lui. E il bello è che una simile risposta, che sarebbe suonata altezzosa in bocca a chiunque, diventava naturale se portata da Bettiza, con la sua eleganza, l’accento di frontiera, l’italiano colto di chi l’aveva imparato come una lingua straniera, e usava aggettivi desueti — «sulfureo», «mercuriale», «saturnino» — con la precisione di un chirurgo e l’estro di un prestigiat­ore.

Di famiglia ricca, perse tutto con la guerra e l’occupazion­e jugoslava. Fuggì da un campo profughi in Puglia, «retto dagli inglesi con inutile crudeltà», e fu contrabban­diere, venditore di libri a rate, giocatore di poker. Intervistò Tito, Ceausescu — tre volte — e lo scià di Persia, che gli aveva dato appuntamen­to la mattina di Natale. Rimprovera­va a Montanelli di ammirare sotto sotto i comunisti che combatteva; ma lui stesso aveva fatto la campagna elettorale del 1948 per il Pci, traendone poi un formidabil­e romanzo — «con Pajetta viaggiammo per tre ore, e non mi rivolse una sola parola» —; e tra Krusciov e Kennedy preferiva «il contadino ucraino al sussiegoso bostoniano». Detestava l’alterigia della sinistra, demolì tutti gli intellettu­ali dell’esistenzia­lismo e dello struttural­ismo francesi, fu un cronista spietato del Sessantott­o, sosteneva che gli unici veri eroi della ribellione erano stati i giovani della Primavera di Praga.

Con Montanelli fondò «il Giornale» e ruppe su Craxi; fu un parlamenta­re europeo influente, intuì il «lib-lab», il liberalsoc­ialismo che avrebbe fatto scuola negli anni a venire. Nella Seconda Repubblica votò Lega, nella versione federalist­a di Bossi. Ma non aveva mai smesso di essere un giornalist­a. Memorabile il suo racconto dell’ultimo viaggio di Pajetta a Mosca: «Era disperato. Litigava in russo con i camerieri: “State svendendo tutto agli americani, pure le spoglie di Lenin finiranno al museo delle cere di New York!”. Poi il vecchio comunista parlò davanti alla nomenklatu­ra, rinfaccian­dole mezzo secolo di inganni. I russi erano allibiti. Lo guardavano come un matto».

Altre sue pagine andrebbero mandate a memoria nelle scuole di giornalism­o: le docce di Craxi che scendeva nella hall del Raphael con un rivolo di schiuma dietro l’orecchio, la malattia di Piovene «svuotato come fa il polpo con l’aragosta lasciando solo il carapace», la trattativa mancata per portare Stille al «Giornale» e quella riuscita con Dan Segre tra le carcasse dei carri armati siriani sul Golan. Ma il suo ritratto non sarebbe completo se si tacesse che per i colleghi, quelli che lo amavano e quelli che lo invidiavan­o, Bettiza è stato un personaggi­o di culto. Si raccontava che nessuna donna potesse resistergl­i, fino a quando non trovò pace con due signore del giornalism­o, prima Ludina Barzini e poi Laura Laurenzi, che l’altro giorno l’hanno sepolto in forma privata insieme con i quattro figli. Leggendari­e anche le sue note spese: non avrebbe mai rubato una lira, ma considerav­a ovvia una sistemazio­ne adeguata al suo rango; spesso accompagna­to da un’assistente che chiamava dijurnaia, alla russa, passava interi mesi nei migliori alberghi del mondo. E quando un contabile gli chiese «il giustifica­tivo», scrisse soltanto: «Bettiza».

Con Montanelli fondò «il Giornale» e ruppe su Craxi. Fu deputato influente a Strasburgo

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