La dignità di un papà e una mamma dentro una storia più grande di loro
dalla nostra inviata
Forse è davvero «andato via con gli angeli», come dicono i suoi genitori e chi ha fede nell’aldilà. Sicuramente è morto «con dignità», come volevano i medici del Great Ormond Street Hospital (Gosh) e il giudice Nicholas Francis. Charlie non c’è più. Nella memoria di chi ha seguito le ultime, tragiche, udienze di questa settimana resta però l’eco dell’urlo di una madre, impotente e disperata, contro un’altra donna, Victoria Butler-Cole, l’avvocatessa del tutore legale: «Sei contenta ora? Cosa avresti fatto tu se fosse stato tuo figlio?». Poi Connie Yates, la mamma di Charlie, è uscita, farfugliando tra i singhiozzi: «Non posso restare qui dentro con lei un minuto di più».
La morte di Charlie era già decisa, quel mercoledì pomeriggio. Il giudice aveva dato l’ultimatum: se entro mezzogiorno del giorno successivo i Gard non avessero trovato un pediatra specializzato in terast’impresa, pia intensiva e un hospice disposto ad attrezzarsi per tenere in vita il piccolo per qualche giorno — il loro «ultimo desiderio» — il bambino sarebbe stato trasferito in una struttura per malati terminali scelta dal Gosh e subito estubato.
Le condizioni poste alla coppia, lasciata sola in que- Coppia Connie Yates e Chris Gard erano ovviamente impraticabili. «Non troverai in tutta la Gran Bretagna un medico disponibile, vedrai — ha sussurrato fuori dall’aula la biondissima e dolcissima nonna di Charlie a sua figlia —. Perché non ti arrendi e vai dal tuo piccolo». Ma accanto a lei il nonno scuoteva la testa e Connie, smagrita come un fuscello dopo mesi di battaglie in tribunale, continuava a lanciare appelli laceranti via Facebook, sull’account della «Charlie’s Army». Una corsa contro il tempo. Al suo fianco stavolta non c’era neppure il marito Chris, con il suo sguardo sconvolto e il viso scavato, rimasto al capezzale del figlio.
È facile, in un caso come questo, pensare che sarebbe stato meglio risparmiare mesi di agonia a Charlie (il condizionale è d’obbligo, perché anche sulla sua sofferenza i medici non hanno certezze). O che i figli non sono proprietà dei genitori. Ma Chris e Connie non sono stati egoisti. Bastava guardarli lunedì in quell’aula di tribunale, piccola e anonima, stipata all’inverosimile, a meno di quindici minuti a piedi dall’ospedale dove il loro bambino era ricoverato dall’ottobre scorso. Anzi, «prigioniero» secondo i sostenitori che fuori urlavano al giudice di «rilasciarlo».
«Volevamo soltanto dargli un’opportunità di vivere», ha detto lei, in lacrime. Si erano arresi: nessun trattamento avrebbe più potuto fermare il corso letale della malattia. La conferma era arrivata venerdì sera proprio dal medico americano che, in precedenti pareri alla corte, aveva affermato di poter sottoporre Charlie alla terapia nucleosidica (ultrasperimentale). Però il professor Non sono stati egoisti, per capirlo bastava guardarli da vicino nell’aula del Tribunale
Michio Hirano, a detta del Gosh, non aveva mai neppure guardato i referti medici del bambino.
Poteva sopravvivere, se trattato in tempo? I genitori sono convinti di sì. Lunedì hanno lanciato un j’accuse durissimo dal banco dei testimoni: «Avevamo una possibilità di salvarti, ma non ci è stato permesso di farlo». Chris e Connie sono due giovani semplici — badante lei, postino lui — che si sono ritrovati schiacciati in una storia molto più grande di loro. E non si sono arresi, con grande dignità. Come in un film di Ken Loach dove gli ultimi sfidano le fredde istituzioni, la burocrazia, l’establishment. E quasi sempre perdono.
Avevamo una possibilità di salvarti, ma non ci è stato permesso di farlo