Corriere della Sera

Così «strapazzo» i grandi palazzi

La pittura di Petrus, dal Pirellone a Scampia: le mie costruzion­i? Estetica senza sociologia

- Alessandra Quattordio

na nuova serie di opere di Marco Petrus, pittore assai noto per le sue visioni urbane, è esposta a Napoli nella mostra «Matrici». Protagonis­te sono le Vele di Scampia, edifici costruiti negli anni 60 sull’onda del Modernismo internazio­nale, divenuti poi , sfortunata­mente, teatro della malavita partenopea.

Quale il motivo della scelta di questo tema?

«Da tempo cercavo un soggetto unico per sviluppare un progetto che “progrediss­e” rispetto al “metodo” da me affinato. L’occasione si è presentata pensando a Napoli, complice l’Unité d’Habitation di Le Corbusier cui avevo dedicato un grande dipinto esposto a chiusura della mia ultima mostra “Atlas” (Triennale di Milano, 2014). Caso vuole che il complesso di Marsiglia avesse ispirato anche il progettist­a delle Vele, l’architetto Franz Di Salvo. L’esposizion­e mediatica di Scampia, con la sua forza icastica, Volumi e colori Marco Petrus nel suo studio, a Milano. A sinistra, M14, 2015, una delle tele su Scampia

la monumental­ità e le caratteris­tiche compositiv­e delle architettu­re si sono rivelate “necessarie” per quest’operazione».

Opere che avranno richiesto tempi lunghi, sul campo…

«In tre anni di lavoro non sono mai stato a Scampia. Ho raccolto immagini da Google Earth. Da sempre guardo agli edifici come a modelli estrapolat­i dal

contesto originario, spogliati dagli aspetti sociologic­i e urbanistic­i».

Quali, in particolar­e, i primi edifici dipinti?

«Prima di concentrar­mi sui singoli edifici e sui loro dettagli, a fine anni 80 dipingevo “passeggiat­e urbane”, spesso notturne, da flâneur: percorsi che ogni volta svelavano luoghi mai notati prima».

Gli itinerari piu’ battuti?

«Alla Bovisa, con i suoi gasometri, che mi riportavan­o alla Milano di Sironi. L’interesse per i dettagli nacque allora. Cominciai a fotografar­e finestre e facciate. Più tardi le trasferii su carta e tela».

E i soggetti più amati?

«Ca’ Brutta, Palazzo della Triennale, Torre Rasini, Torre Velasca, Pirellone, le architettu­re milanesi di cui non posso fare a meno. Le ho strapazzat­e, rovesciate, tradite, fino a farle diventare una mia visione d’insieme: le ho utilizzate per costruire uno stile, per definire una poetica».

Tre anni di lavoro per il quartiere napoletano. Ma non ci sono mai andato, ho utilizzato Google Earth

Come si relaziona il suo modo di vivere gli interni domestici con la ricerca sull’architettu­ra?

«Sono cresciuto con la mia numerosa famiglia in case d’epoca, dove gli arredi si tramandava­no e si adattavano cambiando funzione in base alle esigenze. Poi, con la nascita di mio figlio Lorenzo, scelsi con Donata di vivere in un palazzo anni 20 per la bellezza dei suoi pavimenti — marmettoni, graniglie, parquet — e delle piastrelle smussate di bagni e cucine. Infine, la svolta minimalist­a: un appartamen­to luminoso anni 60, per il quale abbiamo scelto pezzi di modernaria­to danese e design italiano. Un minimalism­o che sta caratteriz­zando anche lo stile delle mie ultime tele».

Sono cresciuto tra arredi d’epoca, poi ho scoperto gli anni 20. Infine la svolta minimalist­a

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