Culle vuote e talenti in fuga Il Mezzogiorno diventa «la questione demografica»
La prima notizia — almeno quella — è incoraggiante: l’economia del Sud nel 2016 è cresciuta, per di più a un ritmo superiore a quella del Centro-Nord. A tenere su le regioni meridionali sono stati i consumi e gli investimenti dell’industria (+2,9%), due indicatori tornati positivi dopo ben sette anni negativi. E soprattutto il dato riferito al manifatturiero meridionale, che arriva non dimentichiamolo dopo un lustro e mezzo di grande recessione, merita considerazione perché dimostra a livello statistico quanto era stato testimoniato da diversi studiosi ovvero che l’industria del Sud non è affatto di serie B. Non è questa la sede ma sarebbe interessante operare una mappatura della presenza manifatturiera e si vedrebbe come operano in quelle regioni gruppi e realtà solide e come questi insediamenti a differenza del passato siano in grado di creare legami con le migliori Pmi del territorio. Esiste anche una buona presenza di multinazionali garantita da un’altrettanto interessante qualità del manufacturing locale. Il guaio però è che queste aree di ottimo standard - se non in qualche caso di assoluta eccellenza - non sono in grado da sole di sostenere l’intero peso dell’economia meridionale. Così mentre al Nord si discute dei processi di contaminazione/innovazione tra manifatturiero e servizi, l’industria al Sud deve limitarsi ad essere un presidio o tutt’al più un sistema di piccole fortezze. Perché, ed è questa la pessima notizia che ci arriva dal rapporto Svimez, è la società meridionale che sta franando tutto attorno. Da diversi anni i sociologi sottolineano come ogni 12 mesi si sposti dal Sud l’equivalente in termini di popolazione di una media città, ora però la sequenza ripetuta di queste partenza ha di fatto aperto una voragine e rischiamo di avere un Meridione senza laureati e senza talenti. Se negli anni 60 e 70 lasciavano il Mezzogiorno le fasce più povere della popolazione alla ricerca di un posto nelle fabbriche del Nord, oggi se ne va la meglio gioventù e basta assistere a una cerimonia di laurea alla Bocconi di Milano per averne la manifestazione più evidente. Una parte minima di quei giovani tornerà al Sud perché mancheranno le occasioni e l’industria — di cui abbiamo parlato — potrà offrire un posto allettante a pochi di loro.
Dicevamo dello smottamento della società meridionale alla quale vengono meno alcune certezze del passato che pure ne avevano garantito la tenuta e l’evoluzione: è sbalorditivo, ad esempio, che l’indicatore di fecondità sia più basso al Sud che al Nord (1,29 contro 1,38) e dimostri come — parole dello Svimez — il Meridione non sia più «il serbatoio delle nascite italiane». Le regioni a Sud hanno preso l’andamento demografico tipico delle aree sviluppate senza minimamente esserlo. Una beffa.
Passare dalla descrizione dell’esistente alle policy non è mai facile e in questo caso ancor di più, ma se sul piano strettamente politico-amministrativo vanno seguite con interesse le misure adottate dal governo Gentiloni (aiuti all’auto-imprenditoria e zone economiche speciali), l’intera comunità nazionale dovrebbe reagire e organizzare nel Mezzogiorno quantomeno un momento di riflessione comune tra economisti, sociologi, demografi e amministratori locali. Qualcosa del genere, anche se in chiave prettamente economica, fu organizzata nel ‘98 dall’allora ministero dell’Economia Carlo Azeglio Ciampi a Catania. So già però che con la campagna elettorale alle porte tentare di capirne di più sulla crisi profonda della società meridionale non sarà considerata una priorità.