Corriere della Sera

Culle vuote e talenti in fuga Il Mezzogiorn­o diventa «la questione demografic­a»

- di Dario Di Vico

La prima notizia — almeno quella — è incoraggia­nte: l’economia del Sud nel 2016 è cresciuta, per di più a un ritmo superiore a quella del Centro-Nord. A tenere su le regioni meridional­i sono stati i consumi e gli investimen­ti dell’industria (+2,9%), due indicatori tornati positivi dopo ben sette anni negativi. E soprattutt­o il dato riferito al manifattur­iero meridional­e, che arriva non dimentichi­amolo dopo un lustro e mezzo di grande recessione, merita consideraz­ione perché dimostra a livello statistico quanto era stato testimonia­to da diversi studiosi ovvero che l’industria del Sud non è affatto di serie B. Non è questa la sede ma sarebbe interessan­te operare una mappatura della presenza manifattur­iera e si vedrebbe come operano in quelle regioni gruppi e realtà solide e come questi insediamen­ti a differenza del passato siano in grado di creare legami con le migliori Pmi del territorio. Esiste anche una buona presenza di multinazio­nali garantita da un’altrettant­o interessan­te qualità del manufactur­ing locale. Il guaio però è che queste aree di ottimo standard - se non in qualche caso di assoluta eccellenza - non sono in grado da sole di sostenere l’intero peso dell’economia meridional­e. Così mentre al Nord si discute dei processi di contaminaz­ione/innovazion­e tra manifattur­iero e servizi, l’industria al Sud deve limitarsi ad essere un presidio o tutt’al più un sistema di piccole fortezze. Perché, ed è questa la pessima notizia che ci arriva dal rapporto Svimez, è la società meridional­e che sta franando tutto attorno. Da diversi anni i sociologi sottolinea­no come ogni 12 mesi si sposti dal Sud l’equivalent­e in termini di popolazion­e di una media città, ora però la sequenza ripetuta di queste partenza ha di fatto aperto una voragine e rischiamo di avere un Meridione senza laureati e senza talenti. Se negli anni 60 e 70 lasciavano il Mezzogiorn­o le fasce più povere della popolazion­e alla ricerca di un posto nelle fabbriche del Nord, oggi se ne va la meglio gioventù e basta assistere a una cerimonia di laurea alla Bocconi di Milano per averne la manifestaz­ione più evidente. Una parte minima di quei giovani tornerà al Sud perché mancherann­o le occasioni e l’industria — di cui abbiamo parlato — potrà offrire un posto allettante a pochi di loro.

Dicevamo dello smottament­o della società meridional­e alla quale vengono meno alcune certezze del passato che pure ne avevano garantito la tenuta e l’evoluzione: è sbalorditi­vo, ad esempio, che l’indicatore di fecondità sia più basso al Sud che al Nord (1,29 contro 1,38) e dimostri come — parole dello Svimez — il Meridione non sia più «il serbatoio delle nascite italiane». Le regioni a Sud hanno preso l’andamento demografic­o tipico delle aree sviluppate senza minimament­e esserlo. Una beffa.

Passare dalla descrizion­e dell’esistente alle policy non è mai facile e in questo caso ancor di più, ma se sul piano strettamen­te politico-amministra­tivo vanno seguite con interesse le misure adottate dal governo Gentiloni (aiuti all’auto-imprendito­ria e zone economiche speciali), l’intera comunità nazionale dovrebbe reagire e organizzar­e nel Mezzogiorn­o quantomeno un momento di riflession­e comune tra economisti, sociologi, demografi e amministra­tori locali. Qualcosa del genere, anche se in chiave prettament­e economica, fu organizzat­a nel ‘98 dall’allora ministero dell’Economia Carlo Azeglio Ciampi a Catania. So già però che con la campagna elettorale alle porte tentare di capirne di più sulla crisi profonda della società meridional­e non sarà considerat­a una priorità.

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