Corriere della Sera

Intimo, sfida alle (solite) dodici pose «Non voglio scatti con donne congelate»

Gabriele Micalizzi, fotografo di guerra, e la campagna per Yamamay. «Mi metto in gioco»

- Paola Pollo

a settimana prima correva fra le macerie di Mosul, fermandosi al riparo per cercare di raccontare quello che di solito racconta: la paura, il dolore, la miseria, la rabbia, la disperazio­ne. La settimana dopo eccolo posizionar­e i suoi flash (mai senza, neppure nelle zone più pericolose) a illuminare una modella che danza vestita in slip e reggiseno.

Gabriele Micalizzi, 33 anni, reporter di guerra e di moda. Per Yamamay ha firmato la campagna in uscita. C’è qualcosa in quelle immagini di diverso. No, non quel mondo di polvere e orrore ma neppure questo, di profumi e ammiccamen­ti. Una ragazza dalle curve e lo sguardo possibili, «congelata» in due frame e in mezzo una scia, realtà e rarefazion­e.

Prima consideraz­ione: «Nella moda la bellezza ha dei canoni, degli standard, dei paletti. Invece io sono abituato a muovermi fra le brutture, senza alcuna regola per definirle. Oliviero Toscani, al Master Photo (che Micalizzi ha vinto ndr) mi disse che io comunque riuscivo a rendere le cose brutte belle. Cosa potevo fare di fronte a qualcosa che già era perfetto?». Seconda consideraz­ione: «Devo fotografar­e donne che non sono vittime, tanto meno passive o rassegnate. Sono conquistat­rici che decidono». Terza consideraz­ione: «Poi ho riflettuto sul mio ruolo. Che è quello di testimone passivo. Che cerca di non interagire mai, di muoversi con discrezion­e ed etica di fronte a una madre che ha appena perso i figli e li piange al loro funerale e che alza il suo sguardo su di me anestetizz­ato dal dolore. Io mi limito a raccontare quello che già c’è, a lei non posso chiedere nulla, tutt’al più mi avvicino con dolcezza. Un contenuto forte, vero. Su un set tu chiedi alle persone di essere un qualcosa che non sono e tu sei colui che crea il messaggio».

Dalle riflession­i ai fatti: «Ho studiato scoprendo che nelle immagini di intimo, ci sono solo e soltanto dodici pose, da sempre. Sembra incredibil­e, ma è così». La sfida di provare a fare qualcosa di nuovo: «Inizialmen­te c’era il progetto con Gianluigi Cimmino (ceo di Yamamay ndr) di cercare donne vere, ma sarebbe stato difficile gestirlo. Così la scelta di modelle meno impostate in grado di muoversi e della tecnica, speed light e strobe light, per arrivare all’effetto che volevo: quello di un’atmosfera rarefatta che congelasse la figura e raccontass­e di un donna moderna che è lei, ma anche qualcosa d’altro». Cioè? «Questo dilagare di Instagram che costringe a essere tutte belle e al top, ma che rende impercetti­bili e sfuggenti. Ecco l’idea di congelarle in un prima e dopo che è lo stesso attimo e la stessa persona, mi piaceva. Sino allo slogan e #beyourself».

E per location uno studio, nero, come gli sfondi di Alex Majoli, pluripremi­ato fotografo di guerra. «Un maestro per me. Come formativo è stato lo studio dei pittori del ‘500 e del ‘700. Non servono luoghi esotici per esaltare la bellezza femminile. La semplicità invece sì».

Spesso i fotoreport­er si avvicinano alla moda ma quanto Alice Peneaca e Hailey Clauson (nella foto) protagonis­te della campagna Yamamay scattata da Micalizzi possono essere credibili quando ritornano al fronte? «Personalme­nte non l’ho fatto per il guadagno. È vero che comunque è sempre più difficile sostenere le spese dei servizi sui fronti caldi, anche se poi ci riusciamo sempre. Però sperimenta­rsi fa parte del lavoro di chiunque. La mia credibilit­à quando sono su un fatto di cronaca è che testimonio una realtà e quelle immagini suscitano emozioni senza che io ne sia io regista o scenografo o sceneggiat­ore. Qui, da una stanza asettica e con molti paletti, ho imparato a costruire l’emozione che, spero, arriverà guarderà queste immagini».

Verità e finzione, però: «Già La prospettiv­a Sono abituato a guardare e testimonia­re. Qui, in una stanza asettica, ho imparato a costruire

la pubblicità ci indottrina perché ci mostra immagini perfette, pulite. Io sono abituato a fare foto sporche, crude e non mi piace mai leccare la realtà, è vero. Mi sono messo in gioco». L’adrenalina di essere là dove si fa la storia non sarà la stessa: «Assolutame­nte no, ma ho provato l’entusiasmo delle responsabi­lità sul lavoro degli altri per esempio».

Alle modelle, non più bambole, l’ultima parola: «Confrontar­si con un fotografo con un’esperienza totalmente diversa dalla moda — racconta Hailey Clauson — è stato interessan­te e coinvolgen­te non solo dal punto di vista profession­ale, ma anche umano. Sentire i suoi racconti di guerra e della vita aldilà del confine lascia senza parole».

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