Canapa e arte: la resistenza della Valnerina
In Umbria ci sono paesi come S. Anatolia che non si arrendono al sisma. E recuperano il passato
a galleria Forca di Cerro, appena oltre Spoleto, è come un sipario buio. Una volta attraversata, appaiono la luce della Valnerina, con le sue abbazie appisolate sui colli, i campi di girasoli, le macchie verdi quasi fosforescenti dei boschi, i torrenti.
E soprattutto fanno la propria, resiliente, apparizione i borghi raccolti sulle dorsali, alcuni ancora feriti, altri scampati alla furia del sisma dell’agosto e fine ottobre scorsi, tutti accomunati dall’orgoglio degli abitanti, che sono rimasti qui, a dispetto delle crepe e delle scosse. Per difendere un patrimonio storico, architettonico, antropologico, agreste che non può andare disperso, bensì merita di essere (ri)scoperto. Ecco perché è importante il «caso» Sant’Anatolia di Narco, comune in cui vivono appena 560 persone distribuite su di una superficie che, partendo da poco più di 300 metri di altitudine, supera i 1.200 nella frazione di Gavelli, lassù dove le aquile volteggiano sopra pascoli quasi sospesi tra le nuvole, nei rari altipiani in cima agli Appennini Umbri. I luoghi sono ameni: Castel San Felice col ponte medioevale attraversato per secoli da viandanti e monaci e un’Abbazia dallo splendido rosone (bambini, cercate il bue strabico…), l’abitato medioevale di Caso con la Madonna delle Grazie che «cavalca» un destriero in una chiesetta tutta affrescata; laggiù la conca verde del Piano delle Melette e dentro una metafisica pineta, invece, la Chiesa di Santa Cristina dove le pareti sono tutte femmine. E anche le visitatrici: la leggenda, confortata dalle Comunità In alto, una veduta di Sant’Anatolia di Narco; in basso, alcuni abitanti in uno dei vicoli del centro storico, di impianto medioevale. Nel borgo vivono 560 persone, di tutte le età alte percentuali di successo, vuole che chi preghi le conturbanti donne qui raffigurate si sposi entro l’anno. Eppure il vero tesoretto di Sant’Anatolia di Narco è la sua gente semplice, dalla parlata gioconda, le mani callose, come Eugenio Perugini che a 94 anni è la «roccia» nonché la voce narrante di questo borgo conosciuto anche come il paese della canapa. «La coltivavo negli anni 50 nei campi in riva al fiume Nera, poi abbandonammo la produzione quando sul mercato comparvero la lana, la seta e i tessuti sintetici, ma io non ho mai dimenticato quegli anni floridi. E adesso mi piace spiegare ai giovani come avveniva la lavorazione, il funzionamento dei telai, persino aiutare gli agricoltori».
Il merito della riscoperta della canapa, che ora è possibile coltivare per uso tessile e cartario nel rispetto delle prescrizioni legali, e del patrimonio di memoria storica locale legato ad essa va ascritto a Glenda Giampaoli, la direttrice di boxe, Benedetta Martini, la sua assistente che adora le pietre colorate. Sono queste donne ad animare un Museo speciale: hanno rimesso in azione i telai coi quali tutti possono imparare a tessere. Hanno coinvolto la popolazione locale in documentari video, producono abiti e oggetti di design meritevoli dell’attenzione di case di alta moda (le scarpe, gli abiti, le borse, le tovaglie), stimolano la produzione di prodotti alimentari e cosmetici legati alla canapa.
«Il terremoto qui ha fatto calare i visitatori del 98% ma noi — spiegano — crediamo nel loro ritorno perché qui c’è tanta gioia di vivere, raccontare, il paesaggio è un quadro del Perugino, la qualità della vita è altissima». Lo si nota anche negli occhi di Gregorio Amadio, antiquario e artigiano che alle porte di Sant’Anatolia di Narco ha creato una sorta di villaggio fatto di vecchie porte accatastate come tepee indiani, jukebox vintage, collezioni di bottoni, robot scolpiti a mano. «Salvo il passato cominciando dalle cose quotidiane che altrimenti andrebbero perdute. Qui, tra tanti gatti e i pochi viaggiatori della strada statale che porta ad Ascoli Piceno, cerco come i miei compaesani di adoperarmi per il bene di questo territorio». Come fa anche Chiara Sabatini, 30 anni, che ha studiato teatro, preferendogli poi l’orto biodinamico in cui coltiva con pratiche agronomiche non invasive mais e qualità di frutta che senza il suo entusiasmo andrebbero perduti.
Il terremoto ha fatto danni al turismo, ma abbiamo fiducia perché qui la qualità della vita è alta e sembra di vivere in un dipinto