Corriere della Sera

Canapa e arte: la resistenza della Valnerina

In Umbria ci sono paesi come S. Anatolia che non si arrendono al sisma. E recuperano il passato

- Luca Bergamin

a galleria Forca di Cerro, appena oltre Spoleto, è come un sipario buio. Una volta attraversa­ta, appaiono la luce della Valnerina, con le sue abbazie appisolate sui colli, i campi di girasoli, le macchie verdi quasi fosforesce­nti dei boschi, i torrenti.

E soprattutt­o fanno la propria, resiliente, apparizion­e i borghi raccolti sulle dorsali, alcuni ancora feriti, altri scampati alla furia del sisma dell’agosto e fine ottobre scorsi, tutti accomunati dall’orgoglio degli abitanti, che sono rimasti qui, a dispetto delle crepe e delle scosse. Per difendere un patrimonio storico, architetto­nico, antropolog­ico, agreste che non può andare disperso, bensì merita di essere (ri)scoperto. Ecco perché è importante il «caso» Sant’Anatolia di Narco, comune in cui vivono appena 560 persone distribuit­e su di una superficie che, partendo da poco più di 300 metri di altitudine, supera i 1.200 nella frazione di Gavelli, lassù dove le aquile volteggian­o sopra pascoli quasi sospesi tra le nuvole, nei rari altipiani in cima agli Appennini Umbri. I luoghi sono ameni: Castel San Felice col ponte medioevale attraversa­to per secoli da viandanti e monaci e un’Abbazia dallo splendido rosone (bambini, cercate il bue strabico…), l’abitato medioevale di Caso con la Madonna delle Grazie che «cavalca» un destriero in una chiesetta tutta affrescata; laggiù la conca verde del Piano delle Melette e dentro una metafisica pineta, invece, la Chiesa di Santa Cristina dove le pareti sono tutte femmine. E anche le visitatric­i: la leggenda, confortata dalle Comunità In alto, una veduta di Sant’Anatolia di Narco; in basso, alcuni abitanti in uno dei vicoli del centro storico, di impianto medioevale. Nel borgo vivono 560 persone, di tutte le età alte percentual­i di successo, vuole che chi preghi le conturbant­i donne qui raffigurat­e si sposi entro l’anno. Eppure il vero tesoretto di Sant’Anatolia di Narco è la sua gente semplice, dalla parlata gioconda, le mani callose, come Eugenio Perugini che a 94 anni è la «roccia» nonché la voce narrante di questo borgo conosciuto anche come il paese della canapa. «La coltivavo negli anni 50 nei campi in riva al fiume Nera, poi abbandonam­mo la produzione quando sul mercato comparvero la lana, la seta e i tessuti sintetici, ma io non ho mai dimenticat­o quegli anni floridi. E adesso mi piace spiegare ai giovani come avveniva la lavorazion­e, il funzioname­nto dei telai, persino aiutare gli agricoltor­i».

Il merito della riscoperta della canapa, che ora è possibile coltivare per uso tessile e cartario nel rispetto delle prescrizio­ni legali, e del patrimonio di memoria storica locale legato ad essa va ascritto a Glenda Giampaoli, la direttrice di boxe, Benedetta Martini, la sua assistente che adora le pietre colorate. Sono queste donne ad animare un Museo speciale: hanno rimesso in azione i telai coi quali tutti possono imparare a tessere. Hanno coinvolto la popolazion­e locale in documentar­i video, producono abiti e oggetti di design meritevoli dell’attenzione di case di alta moda (le scarpe, gli abiti, le borse, le tovaglie), stimolano la produzione di prodotti alimentari e cosmetici legati alla canapa.

«Il terremoto qui ha fatto calare i visitatori del 98% ma noi — spiegano — crediamo nel loro ritorno perché qui c’è tanta gioia di vivere, raccontare, il paesaggio è un quadro del Perugino, la qualità della vita è altissima». Lo si nota anche negli occhi di Gregorio Amadio, antiquario e artigiano che alle porte di Sant’Anatolia di Narco ha creato una sorta di villaggio fatto di vecchie porte accatastat­e come tepee indiani, jukebox vintage, collezioni di bottoni, robot scolpiti a mano. «Salvo il passato cominciand­o dalle cose quotidiane che altrimenti andrebbero perdute. Qui, tra tanti gatti e i pochi viaggiator­i della strada statale che porta ad Ascoli Piceno, cerco come i miei compaesani di adoperarmi per il bene di questo territorio». Come fa anche Chiara Sabatini, 30 anni, che ha studiato teatro, preferendo­gli poi l’orto biodinamic­o in cui coltiva con pratiche agronomich­e non invasive mais e qualità di frutta che senza il suo entusiasmo andrebbero perduti.

Il terremoto ha fatto danni al turismo, ma abbiamo fiducia perché qui la qualità della vita è alta e sembra di vivere in un dipinto

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