Gabbia o rifugio, è il paesaggio
Nella letteratura del Novecento diventa fonte di oppressione ma anche di libertà
«C’era un gran silenzio, nel plenilunio vasto e gelido, intorno a noi, e il fiume era carico di detriti di ghiaccio e di lastroni color bottiglia. E anche in noi, nel nostro petto, c’era un silenzio più profondo e più gelido di quello dei morti». È la Val Trebbia in cui Giorgio Caproni fece la Resistenza: tetra, congelata in un’immobilità che è specchio della guerra civile e insieme specchio di colui che la guarda e che ne scrive. «Era una notte, questo è certo: una notte dell’anno e dell’uomo».
Agosto 1917, fronte dell’Alto Isonzo. Salendo una mulattiera, Ardengo Soffici si ritrova faccia a faccia con il conflitto: «Durante un alt, prima di varcar lo schienale del monte, ebbi la sensazione vera della sinistra tragicità della guerra, in un bosco mutilato, tribbiato, devastato dall’artiglieria».
Che cos’è il paesaggio? La domanda è interessante soprattutto ora che, insieme alla natura, si è ripreso la centralità della scena, dopo anni di confinamento ai margini. Può esistere un paesaggio «neutro», cioè non contaminato (nel bene e nel male) dallo sguardo di chi l’osserva, dai suoi slanci o dalle sue paure?
Paesaggi del trauma (Bompiani) di Matteo Giancotti, ricercatore che si occupa della letteratura del Novecento, fa dialogare elementi all’apparenza lontani — il trauma, il paesaggio — andando a scavare nelle scritture letterarie, diaristiche, memorialistiche per arrivare alla conclusione che no, il paesaggio neutro non esiste e che sì, il paesaggio è molto più di uno scorcio di monti, valli, fiumi e case, è uno spazio psicologico, è una levatrice che consente al non detto, all’«impossibile da dire», di trovare una strada per venire alla luce. «Senza letterarietà — scrive — nemmeno il paesaggio esiste».
E poi c’è il trauma, l’altro estremo di oscillazione del pendolo, qualcosa che «forza le difese della coscienza» con la sua potenza devastatrice,
«stravolgendo gli equilibri degli individui e delle comunità». Due i momenti storici traumatici attorno a cui si muove il volume: la Grande guerra e la Resistenza — con una coda più vicina a noi nel tempo, le guerre dell’ex Jugoslavia narrate da Mathias
Énard in Zona (Rizzoli, 2011). Anni di violenza inaudita che turba i sensi e altera le percezioni, catastrofe psicologica di una generazione che Walter Benjamin, in uno scritto del 1936, mette in rapporto al tramonto dell’arte di narrare: «Non si era visto, alla fine
della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca ma più povera di esperienza da comunicare?».
È nel cortocircuito fra trauma e paesaggio che il volume trova lo snodo della nuova letteratura, la svolta di temi, generi e stili, il punto di rottura fra il «vecchio» modo di scrivere e di sentire e il nuovo modo di portare nella pagina l’esperienza della precarietà dell’esistenza.
I soldati al fronte, nei testi di Lussu e Serra, Ungaretti, Sbarbaro, Comisso, d’Annunzio, Marinetti, vivono nel profondo la frattura con un ambiente diventato ostile, con lo spazio fra le trincee, scrive Giancotti, che non è più una dimensione oggettiva, esterna ai combattimenti, ma è stato interiorizzato, è inseparabile dai loro sentimenti «e porta in sé la profondità del tempo». Il paesaggio diventa allora «una pellicola su cui i traumi della guerra si sono impressi indelebilmente, continuando a presentarsi davanti agli occhi dei soldati nella forma di luoghi».
Sarà poi nelle pagine di scrittori come Fenoglio, Fortini, Zanzotto,
Meneghello ricorda In montagna alture, valli, fiumi «presto trionfarono dappertutto e noi ne eravamo come imbevuti»
Caproni, Giovanna Zangrandi, Del Boca che il paesaggio recupererà per i partigiani la dimensione del rifugio, della protezione. Potente e quasi didascalica una pagina di Luigi Meneghello, citata nel libro: «Fu in queste settimane, credo, che ci entrò così profondamente nell’animo il paesaggio dell’Altipiano. In principio, di esso si avvertiva piuttosto ciò che è difforme, inanimato, inerte: ma restandoci dentro, e acquistando via via un certo grado di fiducia e di vigore, anche l’ambiente naturale cambiava. Le parti vive, energiche del paesaggio prendevano il sopravvento sulle altre e presto trionfarono dappertutto, e noi ne eravamo come imbevuti. Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi e quel paesaggio s’è associato per sempre con la nostra idea di libertà».