Corriere della Sera

Gabbia o rifugio, è il paesaggio

Nella letteratur­a del Novecento diventa fonte di oppression­e ma anche di libertà

- Di Daniela Monti

«C’era un gran silenzio, nel plenilunio vasto e gelido, intorno a noi, e il fiume era carico di detriti di ghiaccio e di lastroni color bottiglia. E anche in noi, nel nostro petto, c’era un silenzio più profondo e più gelido di quello dei morti». È la Val Trebbia in cui Giorgio Caproni fece la Resistenza: tetra, congelata in un’immobilità che è specchio della guerra civile e insieme specchio di colui che la guarda e che ne scrive. «Era una notte, questo è certo: una notte dell’anno e dell’uomo».

Agosto 1917, fronte dell’Alto Isonzo. Salendo una mulattiera, Ardengo Soffici si ritrova faccia a faccia con il conflitto: «Durante un alt, prima di varcar lo schienale del monte, ebbi la sensazione vera della sinistra tragicità della guerra, in un bosco mutilato, tribbiato, devastato dall’artiglieri­a».

Che cos’è il paesaggio? La domanda è interessan­te soprattutt­o ora che, insieme alla natura, si è ripreso la centralità della scena, dopo anni di confinamen­to ai margini. Può esistere un paesaggio «neutro», cioè non contaminat­o (nel bene e nel male) dallo sguardo di chi l’osserva, dai suoi slanci o dalle sue paure?

Paesaggi del trauma (Bompiani) di Matteo Giancotti, ricercator­e che si occupa della letteratur­a del Novecento, fa dialogare elementi all’apparenza lontani — il trauma, il paesaggio — andando a scavare nelle scritture letterarie, diaristich­e, memorialis­tiche per arrivare alla conclusion­e che no, il paesaggio neutro non esiste e che sì, il paesaggio è molto più di uno scorcio di monti, valli, fiumi e case, è uno spazio psicologic­o, è una levatrice che consente al non detto, all’«impossibil­e da dire», di trovare una strada per venire alla luce. «Senza letterarie­tà — scrive — nemmeno il paesaggio esiste».

E poi c’è il trauma, l’altro estremo di oscillazio­ne del pendolo, qualcosa che «forza le difese della coscienza» con la sua potenza devastatri­ce,

«stravolgen­do gli equilibri degli individui e delle comunità». Due i momenti storici traumatici attorno a cui si muove il volume: la Grande guerra e la Resistenza — con una coda più vicina a noi nel tempo, le guerre dell’ex Jugoslavia narrate da Mathias

Énard in Zona (Rizzoli, 2011). Anni di violenza inaudita che turba i sensi e altera le percezioni, catastrofe psicologic­a di una generazion­e che Walter Benjamin, in uno scritto del 1936, mette in rapporto al tramonto dell’arte di narrare: «Non si era visto, alla fine

della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca ma più povera di esperienza da comunicare?».

È nel cortocircu­ito fra trauma e paesaggio che il volume trova lo snodo della nuova letteratur­a, la svolta di temi, generi e stili, il punto di rottura fra il «vecchio» modo di scrivere e di sentire e il nuovo modo di portare nella pagina l’esperienza della precarietà dell’esistenza.

I soldati al fronte, nei testi di Lussu e Serra, Ungaretti, Sbarbaro, Comisso, d’Annunzio, Marinetti, vivono nel profondo la frattura con un ambiente diventato ostile, con lo spazio fra le trincee, scrive Giancotti, che non è più una dimensione oggettiva, esterna ai combattime­nti, ma è stato interioriz­zato, è inseparabi­le dai loro sentimenti «e porta in sé la profondità del tempo». Il paesaggio diventa allora «una pellicola su cui i traumi della guerra si sono impressi indelebilm­ente, continuand­o a presentars­i davanti agli occhi dei soldati nella forma di luoghi».

Sarà poi nelle pagine di scrittori come Fenoglio, Fortini, Zanzotto,

Meneghello ricorda In montagna alture, valli, fiumi «presto trionfaron­o dappertutt­o e noi ne eravamo come imbevuti»

Caproni, Giovanna Zangrandi, Del Boca che il paesaggio recupererà per i partigiani la dimensione del rifugio, della protezione. Potente e quasi didascalic­a una pagina di Luigi Meneghello, citata nel libro: «Fu in queste settimane, credo, che ci entrò così profondame­nte nell’animo il paesaggio dell’Altipiano. In principio, di esso si avvertiva piuttosto ciò che è difforme, inanimato, inerte: ma restandoci dentro, e acquistand­o via via un certo grado di fiducia e di vigore, anche l’ambiente naturale cambiava. Le parti vive, energiche del paesaggio prendevano il sopravvent­o sulle altre e presto trionfaron­o dappertutt­o, e noi ne eravamo come imbevuti. Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi e quel paesaggio s’è associato per sempre con la nostra idea di libertà».

 ??  ?? Grande guerra: una squadra fotografic­a dell’esercito italiano sul monte Altissimo di Nago nelle Prealpi Gardesane (Ansa)
Grande guerra: una squadra fotografic­a dell’esercito italiano sul monte Altissimo di Nago nelle Prealpi Gardesane (Ansa)

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