Partono alla grande con il mezzofondista
Let it be. Lascia che sia. Lascia che, da separato in casa con gli inglesi, Mo Farah sbrani il terzo oro iridato consecutivo nei 10 mila, il trekking estremo che gli serve per dimostrare che sì, può vincere anche fuori dal cono d’ombra di coach Alberto Salazar, nel mirino di tre antidoping mondiali. E lascia che Usain Bolt percorra a passo di valzer altri cento metri verso la pensione: va in semifinale con l’ottavo tempo, il minimo sindacale, quanto basta.
Il lungo addio degli immortali è cominciato. A 34 anni, Farah saluta la pista tentando la doppietta con i 5.000 (sabato prossimo: sarebbe la terza a un Mondiale), l’eternità della maratona lo attende insieme a cachet d’ingaggio a sei cifre. I 10 mila sono roba per africani, ed eccolo lì il continente, pienamente rappresentato; ci sono anche un turco, un americano e un canadese camuffati. L’ugandese Cheptegei e il keniano Kamworot, 45 anni in due, impongono un ritmo alto (primo km in 2’39’’) mentre Mo imposta una gara d’attesa. Tira il trenino keniano, che finirà impiccato al suo stesso ritmo. A metà gara passano in 13’33’’, Farah decontratto come fosse una scampagnata. A quattro giri dalla fine si affaccia davanti, poi si lascia scivolare. Gioca. Il gatto, coi topi.
Gioca troppo: si tocca con un keniano, rischia di cadere. Lancia la volata in una bolgia assordante, trionfa con un tempo da pazzi (26’49’’51) davanti a Cheptegei e Tanui.
Salazar, nato a L’Havana da papà José che nel ’51 salvò la vita a Fidel Castro nascondendolo dietro una libreria, non c’è, ed è un’assenza pesante. È l’ossessione di Alberto per i metodi borderline