Corriere della Sera

«Conti pubblici serve un patto»

«L’Italia ha fatto le riforme prima e meglio di tanti altri, Francia compresa»

- Di Daniele Manca

«La politica metta in sicurezza la legge di Stabilità e la ripresa»: così Vincenzo Boccia, leader di Confindust­ria, al Corriere.

Vincenzo Boccia, classe 1964, è abituato a vedere il bicchiere mezzo pieno. O meglio a considerar­e il coraggio una virtù essenziale per un imprendito­re. Ma anche per un paese come l’Italia. Vittima di una truffa, la sua Arti Grafiche Boccia ha vissuto negli anni Novanta momenti difficili che ha saputo superare grazie alla risposta compatta della famiglia e a un piano di ristruttur­azione dal quale è venuta fuori più forte e competitiv­a di prima. Ma è ripartita. Così come vorrebbe vedere pienamente ripartire il suo Paese. A dire il vero questa appare come una nazione divisa in due. Da una parte quell’Italia che non si è mai arresa e che ha continuato a correre o perlomeno a provarci, dall’altra quella che tenta sempre di scaricare sugli altri difficoltà e incapacità o che crede che uno Stato onnipresen­te quanto invadente possa risolvere ogni problema. Soprattutt­o adesso che improvvisa­mente si sono tutti accorti che forse la ripresa c’è per davvero. «Sì, ma non vorrei che visto che si è tornati a crescere tutti iniziasser­o a pensare come spartirsi il tesoretto».

Perché teme che la ripresa non ci sia?

«Tutt’altro. I dati stanno lì a dimostrarl­o. Più investimen­ti, più export e più occupazion­e — sia pure in termini non ancora soddisface­nti — ci dicono che la strada imboccata è quella giusta. Siamo un grande Paese, con enormi potenziali­tà come dimostrano proprio i dati dell’inversione di tendenza. Ma dobbiamo capire che siamo in un momento nel quale non si deve dare un pochino a tutti di quel minimo che ci siamo guadagnati, ma servono impegno e sacrificio per investire sul futuro».

Fiducia nel futuro? Ma se ci avviamo a una campagna elettorale che si annuncia all’insegna di chi fa più promesse.

«A questo servono i corpi intermedi come Confindust­ria. A indicare soluzioni che facciano da ponte tra i vari interessi. Noi non dobbiamo ricercare consensi elettorali».

Ma voi rappresent­ate un interesse solo, quelle delle imprese.

«Certo, come categoria. Ma ci sono iniziative che hanno riscontri positivi per l’economia reale e quindi il Paese tutto, non solo per la nostra categoria. Pensi al Jobs act».

Il Jobs act? Ma qui vogliono già smontarlo in tanti.

«Eh sì purtroppo è una caratteris­tica dell’Italia e delle forze politiche nazionali: smontare quello che si è già fatto. Mentre proprio il Jobs act dimostra come assunzioni a tempo indetermin­ato abbiano comportato anche un aumento dei consumi in parallelo. È normale che chi ha un lavoro stabile pensi al mutuo, a comprarsi un auto. È per questo che abbiamo bisogno di iniziative forti sul fronte del lavoro e dei giovani. Tema che entra nell’elenco delle priorità ma che invece è il problema più urgente. Joaquin Navarro Valls diceva che papa Wojtyla gli aveva insegnato a distinguer­e tra problemi importanti e quelli urgenti».

Tutti parlano di digitalizz­azione come se fosse la soluzione a qualsiasi problema.

«Pensiamo a una cosa diversa. Il metodo del 4.0 è: tu investi in tecnologia io ti agevolo. Analoga cosa va fatta in maniera massiccia per il lavoro. Dobbiamo puntare a creare milioni di posti di lavoro. Non servono interventi leggeri. Dobbiamo togliere l’ansia che ha una grande parte del Paese relativa al fatto che i giovani, i figli, i nipoti non hanno un lavoro».

A dire il vero qui si discute di pensioni non di lavoro.

«Appunto. In Italia non si riesce a dare voce agli interessi di chi è fuori. Fuori dal mondo del lavoro, della scuola. Ma che segnale diamo ai giovani quando diciamo loro che si devono preoccupar­e della pensione tra trent’anni? Stiamo dicendo loro che saranno per sempre precari? C’è qualcosa che non va. I giovani sono nativi digitali, dovrebbero essere linfa vitale per le aziende, aiutarle a essere innovative. Sono il nostro futuro. Su di loro si deve investire».

Gli investimen­ti però languono, quelli pubblici certamente ma anche quelli privati: i vostri.

«Non sembra proprio se guardiamo all’aumento del 30 per cento rispetto al recente passato. Scontiamo una fase di grande criticità ma dire che gli investimen­ti privati languono non è generoso nei confronti delle imprese. Certo, ci piacerebbe fare sempre di più ma per riuscirci c’è bisogno di favorevoli condizioni a contorno. Non ultima, per esempio, proprio la ripresa degli investimen­ti pubblici che devono uscire dalla sfera del dire per passare a quella del fare. Non possiamo avere un’industria 4.0 e un settore pubblico 1.0, tanto per fare un esempio».

Dal pubblico non potete aspettarvi tanto, il debito resta una zavorra.

«Che il debito sia elevato è risaputo. Ma dall’Europa giunge un segnale nuovo di fiducia che consiste nel concederci più spazio nella manovra a patto che sia usato per tagliare il debito. E questo va esattament­e nella direzione che stavamo illustrand­o».

Aiuterebbe a ridurre il debito anche una minore presenza dello Stato in economia. Ma anche Confindust­ria sembra non appassiona­rsi

Cultura anti industrial­e «Quello che contraddis­tingue l’Italia è una cultura anti industrial­e tra le più accentuate al mondo e in contrasto con la nostra condizione di secondo Paese manifattur­iero d’Europa dopo la Germania. Un dato che dovrebbe riempirci di orgoglio mentre è conosciuto da appena il 30 per cento della popolazion­e»

alle privatizza­zioni. C’è poca cultura del privato e tante municipali­zzate

«Quella cui allude lei è una cultura dello spreco, che va combattuta con fermezza e decisione. Quello che invece contraddis­tingue l’Italia è una cultura anti industrial­e tra le più accentuate al mondo e in contrasto con la nostra condizione di secondo Paese manifattur­iero d’Europa dopo la Germania. Un dato che dovrebbe riempirci di orgoglio mentre invece è conosciuto da appena il 30 per cento della popolazion­e».

Ma più che a ridursi il debito la politica sembra pensare a come spartirsi il tesoretto. E per di più con la prospettiv­a di elezioni che potrebbero consegnarc­i un Parlamento senza maggioranz­e ben definite. Siamo i campioni dei governi instabili.

«Questa è una delle poche certezze storiche che abbiamo nel Paese. E infatti Confindust­ria non ha mai nascosto la sua vocazione maggiorita­ria tesa a garantire quella stabilità e quella governabil­ità necessarie alle imprese per traguardar­e il futuro e varare piani economici di medio e lungo periodo. Per questo chiediamo alle forze politiche non di sospendere il confronto elettorale, che è il sale della democrazia, ma di mettere in sicurezza in modo condiviso la legge di stabilità e i provvedime­nti per spingere l’economia accogliend­o l’invito del Capo dello Stato».

È sulla linea di Padoan.

«Se vogliamo essere intellettu­almente onesti dobbiamo riconoscer­e che il governo e Padoan parlano con dati oggettivi e appaiono concentrat­i sui fattori di crescita. Ci auguriamo che non si voglia incidere sui saldi di bilancio prima di aver stabilito gli obiettivi da raggiunger­e».

Anche perché gli stimoli economici della Bce sono destinati pian piano a decadere. E i mercati dopo le elezioni tedesche saranno pronti a speculare su di noi che facciamo sempre la figura del vaso di coccio.

«Alla fine del Quantitati­ve Easing dobbiamo prepararci con coscienza perché con il debito pubblico che ci ritroviamo non possiamo farci sorprender­e dall’aumento dei tassi d’interesse. Ma se l’Italia appare debole è perché non si sa raccontare bene. Noi abbiamo fatto le riforme prima e meglio di tanti altri, Francia compresa, ma la litigiosit­à interna mette in luce solo le criticità. Nessuno, naturalmen­te, può dire che tutto funzioni a meraviglia ma se vogliamo essere onesti dobbiamo ammettere che le cose stanno migliorand­o e molte riforme sono state fatte».

Anche se la vicenda Fincantier­i ha mostrato come la Francia possa permetters­i cose che con altri Paesi forse non farebbe.

«Siamo cresciuti pensando che un ceto dirigente deve essere coerente e responsabi­le. Abbiamo pensato a Macron come una punta avanzata dell’Europa, ma così non si sta dimostrand­o. L’Europa ha bisogno di coerenza, di capire che l’orizzonte è ormai continenta­le. Che Trump quando parla di reshoring sta dicendo che la sua industria la vuole sul suo territorio. Noi che avremmo bisogno di poli europei invece stiamo lì a dividerci: ma ai nazionalis­mi degli uni si contrappor­ranno i nazionalis­mi degli altri e tutti perderemo».

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