Corriere della Sera

Mosul e Beirut, la ragnatela delle missioni senza fine

I NOSTRI SOLDATI DAL KOSOVO ALL’AFGHANISTA­N

- Di Paolo Valentino

Non è mai facile né scontato parlare di «interesse nazionale» in Italia. Lo ha fatto la scorsa settimana alla Conferenza degli ambasciato­ri il presidente del Consiglio, in un discorso che forse avrebbe meritato maggiore attenzione. «Non dobbiamo averne paura», ha detto Paolo Gentiloni, spiegando che l’appartenen­za alla Nato e alla Ue, pur rimanendo pilastri fondamenta­li della nostra collocazio­ne internazio­nale, «non bastano più a definire i contorni della nostra politica estera». Ed è nella centralità del Mediterran­eo, dalla Libia ai Balcani, al Medio Oriente, che il premier ha indicato il «core business» dell’interesse nazionale italiano.

Uno degli strumenti cruciali di questa visione sono le missioni internazio­nali delle nostre Forze Armate e di polizia. Come spiega nel Libro Bianco per la sicurezza e la difesa la ministra Roberta Pinotti, «la stabilità della regione euromedite­rranea è un vitale interesse nazionale. È necessario dunque assumere responsabi­lità maggiori per risolvere le situazioni di crisi».

Formazione e peacekeepi­ng

Sono 31 le missioni all’estero in cui è impegnata l’Italia, con un totale di oltre 7 mila donne e uomini. In molte operazioni — fra cui Libano, Afghanista­n, Iraq, Kosovo — siamo fra i contingent­i più numerosi con parecchie centinaia di soldati e carabinier­i. Le nostre forze fanno un lavoro straordina­rio, elogiate dalle autorità locali e dagli alleati. Nel campo della formazione, dell’addestrame­nto, della protezione dei siti strategici, del peacekeepi­ng, gli italiani costituisc­ono

Alta profession­alità Le nostre forze fanno un lavoro straordina­rio, elogiate dai locali e dagli alleati: lo standard sul quale spesso si verifica la qualità di un’operazione

Scenari fluidi Una volta cominciate, le missioni militari durano all’infinito. Cambiano le situazioni dei conflitti ma le missioni restano, immutabili e immutate

Razionaliz­zare gli sforzi È il caso di adeguare le missioni ai nuovi assetti, cambiandon­e dimensioni e compiti. È possibile recuperare forze pronte ad altri impegni?

L’ospedale di Misurata Ci sono ancora 300 militari a Misurata, dove abbiamo aperto un ospedale militare per i feriti di Sirte. Adesso però la battaglia è finita

molto spesso il benchmark, sul quale si verifica la qualità di un’operazione. Tutto va bene nel migliore dei mondi possibili, quindi? Non esattament­e. Non parliamo qui tanto della riluttanza a essere coinvolti nel cuore di alcune missioni, preferendo di regola assumere ruoli «non combattent­i», indispensa­bili e non meno rischiosi, ma comunque percepiti come accessori rispetto alla prima linea dell’operazione. In Iraq, per ricordare un esempio che ha fatto discutere, i nostri caccia puntavano gli obiettivi per conto terzi, ma non sparavano.

Vorremmo invece concentrar­ci su un altro aspetto della proiezione italiana nel mondo, quello di una certa forza inerziale per cui, una volta cominciate, le missioni militari durano all’infinito. Cambiano le situazioni dei conflitti, vengono raggiunti gli obiettivi all’origine dell’intervento, ma le missioni restano, immutabili e immutate. Il rischio di «overstretc­hing», eccessiva estensione degli impegni, è reale. Pesano probabilme­nte gli interessi legittimi dei militari, che nelle missioni trovano la loro raison d’être. Ma pesa soprattutt­o l’assenza di una riflession­e politico-strategica sul perché di ogni missione e sul suo proseguime­nto, più in generale sul ruolo del Paese: ne vale ancora la pena dal punto di vista dell’interesse nazionale? È il caso di adeguarle a nuovi equilibri, cambiandon­e dimensioni e compiti?

Gli esempi

Partiamo da una vittoria, quella recente di Mosul contro Daesh. L’Italia vi ha contribuit­o con circa 1.400 soldati in Iraq e Kuwait. Di questi, 500 sono stati schierati a protezione dei lavori di una ditta italiana alla diga di Mosul, a ridosso del teatro delle operazioni. Ma ora? Cosa o chi dobbiamo proteggere una volta messi in fuga i combattent­i islamici? Sono ancora necessari tutti i 500 o non avrebbe più senso negoziare un progressiv­o rientro e rimpiazzo con iracheni e curdi, recuperand­o così forze pronte a nuovi impegni? Oppure guardiamo all’Afghanista­n, dove ormai da 15 anni abbiamo circa 1.000 soldati (nei momenti di massimo impegno furono quasi 5 mila). Schierati nella provincia di Herat fanno sostanzial­mente due cose: addestrame­nto e sorveglian­za di un aeroporto e un ospedale. La sorveglian­za l’abbiamo presa su richiesta americana dagli spagnoli, che hanno pensato bene di andarsene. Secondo molti esperti, nelle attuali condizioni afghane basterebbe un numero molto inferiore.

Vecchi impegni

Se poi andiamo in Libano, torniamo alla Prima Repubblica: con qualche pausa, siamo lì dal 1982. Come parte della missione Unifil, garantiamo la zona cuscinetto al confine con Israele con oltre 1.100 uomini. Possiamo stare in Libano tutta la vita? E quali sono i ritorni politici da un Paese che continua ad avere la Francia come sua stella polare? «Per quello che c’è da fare, potremmo tranquilla­mente ridurre della metà la nostra presenza», dice un generale in pensione che conosce bene l’area.

Anche sulla Libia potremmo farci qualche domanda. Ci sono 300 militari stanziati nella zona di Misurata, nell’ambito dell’ospedale militare che abbiamo aperto per curare i feriti della battaglia di Sirte contro gli islamisti. Solo che la battaglia è finita, è vinta, il nemico è in fuga e da mesi, in quella struttura, di pazienti ce ne sono pochi. È così vero, che ogni mattina un gruppo di ufficiali medici italiani va a prestare servizio all’ospedale civile di Misurata per rendersi utile. Forse sarebbe sbagliato far rientrare i 300, visto quanto succede in Libia in queste settimane. Ma non si potrebbe pensarne un impiego diverso?

Fuori dal tavolo dei grandi

Potremmo ancora continuare con i 100 uomini a Gibuti, i 100 in Turchia con una postazione antimissil­e che protegge i turchi da eventuali razzi siriani (ma Ankara non fa più la guerra ad Assad) o gli oltre 500 in Kosovo. Sono tutti funzionali ai nostri interessi strategici? Sarebbero più decisivi in altri teatri? Si può razionaliz­zare la spesa? E non è che nella storia delle missioni all’estero non vi siano esempi opposti. Nel 2006 per esempio il governo Prodi decise la fine della missione in Iraq «Antica Babilonia», in accordo con alleati e governo iracheno dopo aver portato a termine gli impegni assunti, e il ministro della Difesa Arturo Parisi organizzò con lo Stato maggiore il rientro del nostro contingent­e da Nassiriya. Ma sono l’eccezione e non la regola. Le missioni vanno fatte per garantire la sicurezza internazio­nale. «Sono la misura della credibilit­à e della reputazion­e dell’Italia» dice il generale. Ma vanno pensate e ripensate. E soprattutt­o vanno sempre valutate col metro dell’interesse nazionale e modulate in funzione di quello. Anche perché la scelta probabilme­nte giusta degli ultimi decenni, quella di esserci sempre e comunque, non ha pagato i dividendi attesi in termini della nostra presenza al tavolo dei grandi. Restiamo troppo piccoli per farlo. Molto meglio concentrar­ci soprattutt­o sulle cose che ci riguardano direttamen­te.

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