«Con lui mai politichese Voleva sempre parlare dei bisogni di Milano»
L’ex sindaco Pisapia: ci ricordava che la città è comunità
«Lui ha anticipato Papa Francesco su molti temi. Il contrasto alle disuguaglianze, la lotta gli sprechi, l’ambiente. È stato certamente un precursore». Giuliano Pisapia parla di Dionigi Tettamanzi con una trasporto non di maniera. Nel 2011 la Curia milanese non fece mistero di guardare con simpatia alla sua elezione a sindaco dopo 20 anni di dominio di Berlusconi, della Lega e di Cl.
Si diceva che Tettamanzi fosse uno dei più convinti sostenitori della vostra primavera arancione. Conferma?
«Sarebbe irrispettoso nei suoi confronti. Ma certo c’erano dei valori comuni, basti ricordare le sue prese di posizione sull’immigrazione. Lui ripeteva spesso che sono gli abitanti la vera ricchezza di una città. Un altro aspetto che mi aveva particolarmente colpito era la sua apertura ai divorziati. Ma no, sarebbe irriguardoso dire che era un nostro sponsor. E d’altra parte nei nostri incontri non parlavamo mai di formule politiche: parlavamo della città, della sue esigenze e dei suoi bisogni».
Quanto contò il voto dei cattolici in quella vittoria elettorale arrivata dopo 20 anni di dominio del centrodestra a Milano?
«Non so, ma credo che fu apprezzata la mia coerenza e alcuni valori comuni. Ne cito due: l’attenzione ai più deboli e la sobrietà, che non è solo un valore personale ma è un bene sociale. Come lo stesso Tettamanzi ripeteva “la sobrietà coinvolge la città come tale, perché chiama in causa l’uso sapiente dei beni della terra per lo sviluppo sostenibile dell’umanità, oggi e per il futuro”».
Ai tempi l’emergenza non erano i profughi ma i rom. E voi come prima cosa nominaste come vicesindaco la direttrice della Casa della Carità...
«Voleva esser un segnale, certo. Nella mia giunta i cattolici erano addirittura in maggioranza. Quando però si trattò di concedere, per la prima volta nella storia di Milano, il patrocinio al Gay Pride, la decisione fu presa all’unanimità».
La Curia non sollevò mai perplessità per certe scelte sui temi etici? Per esempio sulle unioni civili?
«No. Lo stesso Tettamanzi aveva lanciato un segnale significativo sul tema con una lettera pastorale indirizzata agli sposi “in situazioni di separazione, divorzio o nuova unione”. “Nuova unione”, capisce? Si trattava di una chiara apertura alle altre forme di famiglia».
Su cosa vi sollecitava il cardinale?
«Per lui era prioritario il tema dell’inclusione e della città come comunità. Le opere, la bellezza dei luoghi storici erano certo importanti, ma la cosa fondamentale era la comunità. Diceva che gli abitanti sono la vera ricchezza di una città e sono quelli che la fanno più grande, viva e nobile».
L’eredità di Martini quanto ha influito su di lui?
«Tra i due c’era una continuità evidente e c’è stata sicuramente la prosecuzione di un percorso e di un messaggio pastorale. Eppure erano persone profondamente diverse, anche nell’aspetto. Uno alto e austero, l’altro piccolino e sorridente. Direi che Martini è stato un gande principe della Chiesa, Tettamanzi un grande pastore».
Anche la decisione di premiare Tettamanzi con l’Ambrogino d’Oro non fu al riparo da polemiche. Cosa ricorda di quei giorni?
«La Lega sosteneva che fosse un imam e non un cardinale, un cieco paladino delle moschee solo perché credeva nel dialogo inter-religioso. Furono polemiche avvilenti, almeno in parte poi superate: il loro capogruppo uscì dall’aula e permise che la decisione fosse prese all’unanimità».
Un ricordo personale di
La giunta arancione Lui un nostro sponsor? No, sarebbe irriguardoso La Lega sosteneva che fosse un imam
Tettamanzi?
«La prima volta che ci siamo sentiti al telefono, dopo la mia elezione, mi pregò di uscire dal protocollo: “Vediamoci per parlare dei problemi della città e non solo per le formalità”. Mi disse anche che all’occorrenza sarebbe potuto venire lui a Palazzo Marino. Non ce ne fu bisogno, ma apprezzai molto l’apertura e la disponibilità».