MARCO D’AMORE
e tornava in trionfo dicendo “c’erano dieci persone!”. Era il mio eroe. Quando è morto, avevo dieci anni e, fino ai 18, per non lasciare sola nonna, ho dormito con lei nel lettone, io a capo, lei a piedi».
Lei nasce «bbrav guaglione».
«Ho avuto una famiglia sana, papà infermiere, mamma professoressa. Mi hanno fatto conoscere teatro, musica, cinema. Mi hanno trasmesso valori senza tenermi lontano dalla strada».
Quanta «gomorra» ha visto nelle vie di Caserta dov’è cresciuto?
«Negli Anni ‘90, i Casalesi erano all’apice del potere. La delinquenza era ovunque. Mi si è innestata nel Dna come un’antenna che avverte in anticipo che qualcosa nell’aria si sta spostando ed è meglio allontanarsi. Per cui, a cose veramente brutte non ho mai assistito».
E a cose comunque brutte?
«Uno gettò un mio amico in un cassonetto per derubarlo del giubbotto. Mi misi di mezzo, le presi».
Ha avuto amici che in quelle strade si sono persi?
«Anche cari. Era difficile provare a tirarli fuori. Io, a 18 anni, ho iniziato a fare teatro, viaggiare, e quando tornavo, raccontavo di altre possibilità, ma il dialogo era sempre più arduo».
Com’era arrivata la folgorazione per la recitazione?
«È una passione che ha guadagnato progressivamente spazio, nata alle elementari, dalle suore oblate, che vivevano da eremite, ma avevano un laboratorio di teatro per i bambini».
Che ci faceva dalle suore eremite?
«Mia madre mi cambiava scuola ogni anno: ero turbolento».
Poi, entra nella compagnia di Toni Servillo, con lui fa quattro anni di tournée nella Trilogia della villeggiatura. Com’è Servillo visto da vicino?
«Un maestro involontario, curioso di tutto e tutti. In auto, cantavamo Eros Ramazzotti, parlavamo di Beethoven, discutevamo di politica».
I suoi tre anni a Milano per studiare alla Paolo Grassi?
«Mi hanno cambiato come essere umano. È stata la mia prima volta alle prese coi mezzi pubblici, coi tempi scanditi dagli orari della scuola e dei lavoretti da barista, pizzaiolo, baby sitter. Milano mi ha raccontato un’altra possibilità di stare al mondo, un altro rispetto delle cose. Non migliore né peggiore».
Caserta non è città di cinema, perché ci è
Vita da nipote Mio nonno è stato il mio eroe, era impiegato Sip e andava a recitare nei paesini. Quando è morto avevo 10 anni e fino ai 18 ho dormito nel lettone con la nonna
Compagni di scuola Saviano era al mio liceo, con quei capelli lunghi sembrava un indiano Nelle assemblee incantava tutti. Oggi ci parliamo in dialetto, amo vederlo sorridere
tornato?
«Per la mia inabilità a continuare il lavoro dopo il lavoro».
Non la divertono le pubbliche relazioni?
«Preferisco confrontarmi con le persone normali. E cerco di rendere attiva la mia residenza qui. Do una mano in un teatrino. Raccolgo, potendo, gli appelli di bisogno».
Qual è il male di Napoli?
«Qualora ci fosse “un” male di Napoli è lasciare che la sua gioventù vada via senza che produca bellezza e valori nella sua città. A Napoli servono esseri umani esemplari che restino per esercitare ciascuno la sua professione».
«A Gomorra non si rimprovera la presenza del male, ma l’assenza del bene», l’ha detto lo sceneggiatore Stefano Bises. È d’accordo?
«Usare lo sguardo di un nugolo di criminali è una scelta narrativa che può solo escludere il punto di vista della società civile».
Lei ci sarà nella quarta serie?
«Ho appena girato la terza, che va in autunno. Se la domanda vale a capire se Ciro muore, posso solo dire che lo ritroveremo appesantito, provato dalla morte della figlia».
Quanto c’è di Ciro dentro di lei?
«Mi spaventa sempre la percezione che, in nuce, ci sia in me un germe del personaggio che interpreto. Riguardando le scene violente, resto scosso perché l’azione sono io. Tocca creare una distanza, altrimenti certi personaggi ti restano addosso».
E come ci si scrolla di dosso Ciro, il male assoluto?
«Mantenendo vivo il gioco. “Recitare”, in inglese è play, in francese jouer, come “giocare”. Anche per questo ho fortemente scelto una parte piccola in un film che sarà in concorso a Venezia, sezione Orizzonti, Brutti e Cattivi, di Cosimo Gomez. Mi piace perché i personaggi sono assai bislacchi».
Il regista Matteo Garrone non l’aveva voluta per Gomorra film.
«Ero più giovane, con un gran sorriso e pieno di capelli, ho potuto solo dargli ragione».
Cercava il salto, la popolarità?
«Ammetto lo snobismo: immaginavo la mia carriera solo in teatro».
Nel suo liceo ha studiato anche Roberto Saviano, lo scrittore di Gomorra.
«Me lo ricordo coi capelli lunghi che pareva un indiano. Bravissimo a parlare nelle assemblee d’istituto. Ma era più grande, non lo frequentavo».
Ora, conoscendolo, in cosa l’ha colpita?
«Nella necessità di parlare di cose semplici. Gli mando sms di stupidaggini. Una persona così gravata da cose serie deve anche sentirsi leggera. Ci parliamo in dialetto. Siamo Marchetiello e Robe’. Mi piace vederlo sorridere».
Perché lei, così legato a Napoli, ha voluto un film, Un posto sicuro, sull’amianto a Casale Monferrato?
«È di lì il regista Francesco Ghiaccio, compagno alla Paolo Grassi. Amo le storie di denuncia, su cui però nessuno vuole investire. Infatti, il film è stato coprodotto da Indiana Production con la Piccola società, che avevo creato dieci anni fa per fare teatro».
Risultato? Il cinema di denuncia ha un mercato?
«Il bilancio è positivo, non in termini economici. Nelle scuole, abbiamo fatto presentazioni emozionanti: gli adulti considerano i giovani meno capaci di quanto sono. Soprattutto le ragazze hanno coraggio. E ora stiamo scrivendo un film sull’adolescenza al femminile».
La sua compagna era nel suo stesso liceo. Perché l’amore è arrivato dopo?
«Daniela era la più bella della scuola. Mi piaceva assai. Ero io che non piacevo a lei».
Era stato respinto?
«No, lo sapevo e basta. Poi, sono stato via. Sette anni fa, tornato dopo il film Una vita tranquilla, l’ho rivista. Si era fatta ancora più bella. Sono le donne che sanno quando è il momento e accussì è stato».
Che altro ha visto in lei?
«Una purezza nello sguardo mai riscontrata in nessuno».
Figli ne vuole?
«Voglio nu’ panar ‘e criature. Da quando ero baby sitter, so che fare il padre è la cosa che mi riesce meglio».
E la convivenza, sperimentata da un anno e mezzo, come le riesce?
«Mi piace. Mi piace tenere casa mia, pensare che devo riparare il rubinetto, che viene il tappezziere e ci chiacchiero. Apprezzo in tutti la capacità di fare il proprio mestiere. Al bar, la maestria di chi sa fare bene il caffè m’incanta».
Che altro le ha dato la vita di coppia?
«Il piacere di tornare a scrivere lettere d’amore. Da piccolo, scrivevo ai miei, ora scrivo a Daniela. Ogni mattina, lascio un biglietto con il caffè. Mi emoziona anche solo l’idea che, sul comodino, possa trovare due righe mie».