Corriere della Sera

«Io e Tony Servillo in auto a cantare Ramazzotti I Casalesi? Mi picchiaron­o»

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a serie di cui è protagonis­ta è stata venduta in 190 Paesi. Ridley Scott ha detto d’aver visto tutte le puntate, Don Winslow, dai cui thriller traggono film Oliver Stone e Robert De Niro, va dicendo che «sulle colline di Los Angeles, tutti guardano Gomorra». Ma Marco D’Amore, 36 anni, non sogna Hollywood, continua a starsene a Caserta, non fa la star. Girano sue video interviste in un pub pugliese fra gente che balla la taranta o a Napoli fra i turisti in visita al Cristo velato. Sempre, ha il sorriso negli occhi, e addosso la gioia. Lo guardi e ti scordi Ciro dallo sguardo di ghiaccio, il camorrista più fetente della saga di Scampia.

Leggo sul suo Instagram: «C’è chi si fissa a vedere solo il buio. Io preferisco contemplar­e le stelle. #victorhugo». In che momento l’ha postato?

«A volte, nel buio, sprofondi, ma c’è l’istante in cui scorgi una luce ed è lì che devi guardare. L’ho scritto per condivider­e un pensiero di resistenza, mi sembra più responsabi­le che usare i social per mostrare che ho mangiato pollo».

Qual è il suo buio?

«Il punto di fusione tra vita artistica e pubblica. È il rischio di sentirmi satollo, di non voler più mettermi in gioco».

E poi ha scritto: «Che ciascuno di noi trovi una stella a illuminare il cammino».

«La mia stella sono gli amici, la famiglia, la mia compagna Daniela. Sanno accettare le lontananze da attore e hanno sempre creduto in me».

So che la sua foto preferita raffigura suo nonno che le indica una stella.

«Era il suo modo per spiegare un mondo di cose lontane di cui non avere paura. Mi ha insegnato che la distanza, fisica, etnica e religiosa, non deve creare barriere».

Il nonno era impiegato della Sip, ma attore per vocazione.

«Faceva 300 chilometri per esibirsi nei paesini

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