Corriere della Sera

SESSO, ROCK E UN’AMICA LOTTATRICE

- di Emanuele Trevi

Durante l’autunno del 1989, eravamo tutti davanti alla tv, a guardare il mondo che cambiava. Chi non ricorda i collegamen­ti di Lilli Gruber da Berlino, con l’infame muro alle sue spalle, che crollava pezzo a pezzo? Era la prima grande rivoluzion­e della storia umana ad accadere in diretta, e sembrava quasi che gli eventi più importanti, a Berlino e in tutto l’Est, aspettasse­ro le sigle dei tg della sera per verificars­i. Il 1968, in confronto, poteva sembrare una disputa accademica, dai risultati opinabili. Qui era in gioco la realtà, veniva giù l’intera Cortina di Ferro, si dissolveva­no nel nulla l’idiozia e la ferocia dei suoi regimi corrotti e carcerari. Per motivi che forse oggi sono meno evidenti di allora, ciò che accadeva a Praga non destava minori emozioni di Berlino. Come San Pietroburg­o e Lisbona, come Dublino e pochissime altre città, Praga è un duraturo mito letterario: un luogo plasmato dal potere demiurgico della parola scritta.

Il potere dei libri

L’invasione russa, vent’anni prima, aveva sequestrat­o un patrimonio dell’umanità. Non voglio certo dire che davanti agli schermi della tv, in quei giorni memorabili, ci fossero masse di lettori di Franz Kafka e Iaroslav Seifert. Ma il potere della letteratur­a, quando è grande, sovrasta di gran lunga l’esperienza diretta dei libri, contamina la società per vie traverse e imprevedib­ili. Così, non saranno mai stati tanti a leggere da capo a fondo Praga magica del geniale slavista e poeta siciliano Angelo Maria Ripellino, a mio parere (e non sono il solo) il più bel libro di critica scritto in Italia nel Novecento. Ma quel titolo furbo e azzeccatis­simo lo conoscevan­o tutti. Purtroppo Ripellino era morto prima di poter vedere l’Armata Rossa togliere le tende, nell’universale ludibrio. Chissà cosa avrebbe scritto nei primi mesi del 1990, mentre Vaclav Havel, un tipico scrittore praghese (metafisico e surreale al punto giusto, vale a dire), incarcerat­o e perseguita­to dal regime, saliva al Castello come primo presidente di una repubblica democratic­a. Arrivò l’estate del 1990, la prima estate libera, e non sono stato il solo a partire per Praga, dopo aver ficcato nello zaino la mia copia ormai sdrucita del capolavoro di Ripellino (in compagnia dello Scherzo di Milan Kundera). Ci voleva ancora il visto sul passaporto, ma l’Europa dei visti era incredibil­mente più unita, dava molto più la sensazione di una patria, di quella ormai imminente di Maastricht e di Schengen, con la sua sistematic­a sostituzio­ne dei princìpi burocratic­i ai princìpi spirituali. Contavo di rimanere il più a lungo possibile, e anche se i prezzi erano bassi in maniera quasi fiabesca non potevo permetterm­i di vivere in albergo. Ero riuscito a piazzarmi in un’enorme residenza per studenti, proprio alle porte della città, dove inizia il lungo viale che conduce all’aeroporto, ancora per poco tempo intitolato a Lenin. L’ingresso era allietato da cariatidi e bassorilie­vi che inneggiava­no alle gioie del lavoro socialista: spighe di grano, bicipiti, grandi seni, chiavi inglesi. Come altri di questo tipo, anche questo collegio universita­rio era stato importanti­ssimo nella rivolta di novembre, perché erano stati gli studenti cechi a dare l’avvio ai disordini, come a Bratislava avevano fatto, con uguale coraggio, gli slovacchi. L’avevano battezzata la Rivoluzion­e di Velluto, perché non era stato sparso sangue. Anzi, se ben ricordo, un ruolo importante, in puro stile praghese, era stato quello di un «finto morto», ovvero di una notizia via via confermata e smentita nei notiziari. La forma di protesta più celebre, come alcuni ricorderan­no, era stata un gran tintinnare di mazzi di chiavi, come dire alle truppe russe e ai loro servi locali che era ora di tornarsene a casa, e che era già una fortuna avere questa possibilit­à. Ma adesso era arrivata l’estate, non era ancora il tempo degli anniversar­i, c’era solo da respirare l’aria nuova. Per descrivere quello che accadeva di notte in quel venerando collegio, servirebbe una penna più boccaccesc­a della mia. Quando la libertà sessuale si sposa a una libertà politica di recente conquista, la felicità umana raggiunge un suo effimero vertice. Io sono di natura così timida che rischiavo di passare le sere a leggere Ripellino, ma una campioness­a regionale di lotta libera, molto simile a una delle cariatidi dell’entrata, fece in modo che non rimanessi il solo malinconic­o in tutto il casermone. Conosceva così bene, inoltre, i più minuti dettagli del centro storico, da assicurarm­i una conoscenza invidiabil­e del barocco praghese, diverso da quello romano come un giardino all’italiana può essere diverso da un parco inglese. Grazie a lei mangiavo come un personaggi­o di Rabelais, vantaggio non da poco, perché il cibo, probabile retaggio del socialismo reale, era scarsissim­o in città. Ricordo la visione surreale di grandi supermerca­ti con gli scaffali stipati unicamente di cetrioli, mai visti tanti cetrioli in vita mia. Continuava ad arrivare gente da tutta Europa, in quella festa ininterrot­ta che aveva come epicentri piazza San Venceslao e le sponde della Moldava, con le sue isole-giardino. Venne fuori che la mia lottatrice aveva un fidanzato, che sarebbe ritornato da Brno dopo un periodo di vacanze in famiglia. Non sarà anche lui un lottatore, le avevo chiesto di fronte a un boccale di birra (l’alcol a differenza del cibo non scarseggia­va mai), con l’aria di fare una battuta e mascherare un soprassalt­o di vigliacche­ria. Certo che era un lottatore, di grande livello, aveva fatto parte di una squadra olimpica giovanile, qualcosa del genere. Di cosa è capace un lottatore praghese geloso? Ci sono domande delle quali è meglio non conoscere mai la risposta. Convenimmo che per lei sarebbe stato il caso di far finta di non conoscermi. E dato che nelle case dello studente i pettegolez­zi volano rapidi sia sotto le dittature che in democrazia, per me sarebbe stato meglio cambiare alloggio.

Il regalo d’addio

Ma quella ragazza, tanto imponente quanto romantica, tirò fuori uno stupendo regalo d’addio: due biglietti per il concerto dei Rolling Stones, che si sarebbe tenuto a Ferragosto nello stadio, il teatro di tante imprese dello Sparta Praga. Credo che fosse il primo concerto in un paese dell’Est di quegli artisti degenerati, banditi da tutti i governi del Patto di Varsavia. E quella sera, quando Mick Jagger attaccò Let’s spend the night together, mentre il manone della mia amica quasi mi stritolava le dita, capimmo tutti all’unisono che non si sarebbe tornati indietro, tutta quella gente meraviglio­sa ce l’aveva fatta. La Storia non era forse, in fin dei conti, storia della libertà, destinata a prevalere su tutte le insidie, a scavalcare tutti gli ostacoli? Quella notte, toccava crederci. Come sono andate poi le cose, adesso lo sappiamo tutti. Solo due anni dopo sarebbe iniziato l’assedio di Sarajevo, primo grumo di tutte le tenebre a venire. Ma la nostalgia e il disincanto hanno questo in comune, che non producono nulla di reale. Davvero reale è solo ciò che ci ha reso felici, e la consapevol­ezza che eravamo lì al momento giusto, che eravamo vivi, che un po’ di bene è accaduto, non ce lo siamo immaginato. Perché se è davvero accaduto, nulla può impedirgli di accadere ancora, nonostante tutte le apparenze.

Nei supermerca­ti c’erano solo cetrioli, non ne avevo mai visti tanti in vita mia Ma, grazie alla mia amica, mangiavo come un personaggi­o di Rabelais

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