Piovene, l’Italia palmo a palmo Profetico il «Viaggio» di 60 anni fa. Capì l’ansia di uscire dalla miseria e lo spirito predatorio
Quando sale in macchina raccomanda alla moglie Mimy, che si mette alla guida, di «usare le marce basse». Cioè andare piano e fermarsi spesso, perché gli interessa conoscere bene i borghi e le città che attraverseranno, respirarne l’aria, parlare con chi ci vive. Insomma, pensa quasi a un pedestrian tour, come quelli che facevano i grandi viaggiatori dell’Ottocento. Per quell’esplorazione ha tempo in abbondanza, tre anni. E da un’inchiesta simile non vuole ricavare una sequenza di laccate cartoline da elzeviro, ma un reportage all’altezza delle proprie ambizioni. Ha in mente un racconto ancorato alla realtà e ideologicamente non contaminato, né ottimista né pessimista a priori: veridico. Ispirato solo dalle spiazzanti curiosità che gli detta il suo sesto senso. Un diario costruito sulle ibridazioni culturali che scoprirà e sorretto da una scrittura sottile, disincantata e, insieme, partecipe. Tale da offrire riflessioni nuove sull’identità di un Paese appena uscito dalla guerra e che vede l’alba del miracolo economico.
La sfida si trascina dal 1953 al 1956 e, nel giorno del ritorno a casa, Guido Piovene può dire d’averla vinta. Il suo Viaggio in Italia è un successo. Perché inaugura con il pubblico quella che si potrebbe definire una colloquialità socratica, carica delle domande da lui lasciate sottintese. Così del resto l’hanno vissuto, indirizzandogli molte lettere, gli ascoltatori che l’hanno seguito alla radio (l’incarico gli era stato affidato dalla Rai) e, quando nel 1957 perfeziona gli appunti e li trasferisce in un libro, i lettori. Il testo è tanto acuto e penetrante che Montanelli lo propone fra i classici da rendere «obbligatori nelle scuole». Una guida dal Veneto alla Sicilia che resta un fondamentale documento letterario, antropologico e giornalistico, definito «scrupoloso come un censimento, fedele come una fotografia e circostanziato come un atto d’accusa».
A colpire di più, oggi che a sessant’anni di distanza Bompiani lo ripropone, è la caratura profetica del viaggio di Piovene. Un aspetto sul quale forse neppure lui avrebbe scommesso. Annota infatti che dopo ogni tappa «la situazione mi cambia alle spalle». Ma se una metamorfosi permanente è sempre scontata ovunque, questo non riguarda gli aspetti immutabili del nostro carattere nazionale, che lasciano intuire dove porterà la loro proiezione nel futuro.
Vale per le illusioni agricole e industriali del Mezzogiorno, allora forti ma sulle quali già dubitava a causa della mafia e comunque dissipate a causa della scarsa nervatura morale della classe dirigente locale. Vale per lo spirito predatorio post-ricostruzione, e qui allude alla Napoli poi descritta nel film di Rosi Le mani sulla città: «In nessun altro Paese sarebbe permesso assalire, come da noi, deturpare città e campagne, secondo gli interessi e i capricci di un giorno». Vale per la logica brada e senza freni etici che si sta imponendo pur di allontanare lo spettro della miseria: «L’Italia è diventata il posto d’Europa più duro da vivere, quello in cui più violenta e più assillante è diventata la lotta per il denaro e per il successo».
È una capacità di ante-vedere che Piovene, scrittore di rango e corrispondente dall’estero, ha sperimentato qualche anno prima, durante un’analoga missione negli Stati Uniti per il «Corriere della Sera». A dimostrazione della sua sensibilità prensile, anche nelle pagine del De America (risultato di ventimila miglia in auto attraverso trentotto Stati, per cento reportage poi raccolti in un volume edito da Garzanti nel 1953) affiorano indizi su sentimenti e derive che diventeranno concrete più tardi. Per esempio il suo cogliere una certa «ansia da isolazionismo» come atteggiamento prepolitico che si è estremizzato adesso. O l’intuizione sulla «somma di provincialismi degli Usa
Un racconto ancorato alla realtà e ideologicamente non contaminato, né ottimista né pessimista a priori Notò anche la forza dei provincialismi dell’America rurale «a cui nessuna metropoli potrà dettar legge»
a cui nessuna metropoli potrà dettar legge», che è il blocco sociale fautore dell’elezione di Donald Trump.
Il Viaggio in Italia non scade mai nella retorica, perché non rientra nel suo stile e nella stessa impalcatura narrativa. Piovene suggerisce idee, non lancia allarmi. E nutre il suo racconto di descrizioni talmente raffinate e suggestive che gli enti del turismo di mezza penisola ne hanno fatto saccheggio.
Solo a chiusura dell’impresa si concede una mezza sentenza. A futura memoria. «Tra le virtù maggiori, il nostro popolo ha mostrato di possederne almeno una: la chiarezza, la forza di accettare la verità e chiamare la sconfitta col suo nome… Nella comunità europea la comunità italiana può conquistare un posto come forse non ebbe mai dopo l’unità, sempre che non decada nel vitalismo grossolano, nel politicismo affannoso, nella sfiducia intellettiva». Guardiamoci intorno: non era una profezia precisa?