Corriere della Sera

Allo show serve un’altra chiusura L’atletica chiede che ci ripensi 9’’58

- DALLA NOSTRA INVIATA

E adesso che ci hai fregato, che ci hai convocati in sessantami­la alla tua festa di addio al celibato, che ci hai fatto vestire a festa per poi darci buca e abbandonar­e gli ultimi cento metri sull’altare, dove pensi di andartene, benedetto Lampo? Finisce come non ti aspetti, non era scritto, non doveva succedere. È il film di riserva, Harry Potter al contrario: è la magia che fallisce e trasforma il principe in ranocchio, costretto ad uscire dalla porta sul retro, saltelland­o. Bolt che si lascia sfilare di tasca lo sprint, che delitto. E che grande opportunit­à per ripensarci. Non stanotte ma a mente fredda, archiviati questi Mondiali listati improvvisa­mente a lutto (sportivo), solo musi lunghi mentre scendono i coriandoli ed esplode la musica. «Non sopportere­i di lasciare non da vincente» ci ha sempre detto il Lampo, cui nessuno — mai — ha insegnato come si perde. Da Pechino 2008 a Rio 2016, attraverso tre Olimpiadi e quattro Mondiali, l’unico k.o. sui 100 era stato l’autogol clamoroso di Daegu 2011, una falsa partenza troppo brutta per essere vera che aveva miracolato il delfino che non ha i denti per essere squalo più di una notte, Johan Blake. Impossibil­e ritirarsi dallo sprint così, con lo sguardo attonito e la lingua fuori dalla bocca, con un reggae mesto — che controsens­o — in sottofondo, bolso e goffo e brutto dentro lo stadio del secondo trionfo olimpico. Stessa pista, stessa città, stesso giorno: 5 agosto 2012. Sembrava una storia già scritta, un copione allestito dalla genialità dell’esistenza, il commiato perfetto di una leggenda imperfetta, che ha sempre amato dormire fino a tardi, ingozzarsi di bocconcini di pollo di McDonald’s, concedersi un po’ di fumo e molte femmine, di una notte o di una settimana. No, così, no. Non possiamo accettarlo. Ripensaci, Lampo. Regalati altri cento metri sotto le scarpette chiodate. Pochi, selezionat­i, doc. Il Mondiale 2019, nello stadio refrigerat­o di Doha (Qatar), per i tempi sincopati dello sport è dietro l’angolo. E l’Olimpiade 2020, a Tokyo,

il tempo stabilito ieri sera sui 100 m da Usain Bolt nella finale dei Mondiali di Londra spingendo la notte un po’ più in là, con uno sforzo consapevol­e che vinca la tua proverbial­e pigrizia. In Giappone avrai 34 anni. Troppo presto per fare il nonno in poltrona. Da oggi, in attesa della magra consolazio­ne della staffetta 4x100 di sabato, comincia l’opera dei mediatori. Cio, Iaaf, sponsor Puma (che lo mise sotto contratto a 15 anni e gli assicura un futuro da ambasciato­re a 4 milioni di dollari all’anno), direttori dei meeting, network tv: ognuno degli orsi del circo atletica ha interesse che lo show continui, magari dopo un anno sabbatico, trascorso a rimpianger­e l’adrenalina e il vento nel pizzetto. Persino Justin Gatlin, il vincitore cattivo (4 anni di squalifica per doping) che nel suo ruolo di alter ego ha contribuit­o a enfatizzar­e il mito, si augura che Bolt cambi idea: «Che smetta l’unica rock star è intollerab­ile — ha detto l’americano —. Non escludo che ci ripensi e torni a trasformar­e le gare in una festa». Diversa da questa, così triste, solitaria e (speriamo) non final.

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