Simic: poesia e humor in pericolo
«Il politicamente corretto uccide la creatività perché ha paura di tutto e non conosce l’ironia»
La poesia lirica, come la comicità, è minacciata dal politicamente corretto, ma ha un vantaggio: non deve fare i conti con la politica, con personaggi come Donald Trump, e può continuare a giocare con la realtà. Parola di Charles Simic, premio Pulitzer, prolifico autore di poesia lirica. Lo incontriamo a Milano, dove è intervenuto al festival La Milanesiana: «Ho girato per Brera, poi in Galleria, ho raccontato al barista del Savini di quando bevevo lì la grappa, nel 1962, era più un bar molto grande che un ristorante. Io potevo nascere milanese, mio padre qui ha vissuto, lavorato, finendo in carcere perché scambiato per una spia: era un ingegnere, lavorava per una società telefonica americana, girava con strani attrezzi, insospettivano».
E invece Simic nasce a Belgrado, nel 1938, si trasferisce con la madre nel 1954 negli Usa, dove ritrova il padre: a entrambi dedica molte pagine de La vita delle immagini (Adelphi), raccolta di saggi personali sulle passioni di Simic, dalla pittura alla poesia, cibo e amore.
Il primo piacere che le diede la lingua fu la scoperta delle parolacce. Da piccolo, scrive nel libro, le arrivò uno schiaffo da sua madre per aver nominato il sesso femminile.
«Avevo 5 anni, sentii quella parola dalla sorella di mia nonna: viveva sola a Belgrado, il marito anziano era in campagna, lei era una bella donna sui 50, emancipata, vestita con cura, anche durante la guerra. Mi ha insegnato tutte le parolacce, mi piaceva molto».
Le poesie dovrebbero mantenere vivo quel tipo di piacere.
«Per me è così, nella mia famiglia c’era molta irriverenza. Durante la Seconda guerra mondiale a Belgrado stavamo seduti a piangere, infelici, conquistati, bombardati dagli Alleati, con una guerra civile, una cosa assurda, ma le persone trovavano il modo di ridere. Ricordo una volta che eravamo nello scantinato del carbone di un palazzo di quattro piani. All’improvviso una donna iniziò a urlare il nome del figlio, che era sparito; un paio di ragazzi andarono a cercarlo. Intanto, le bombe cadevano, a casaccio, era spaventoso. Quando tornarono con lui, si scoprì che era andato di sopra, per la strada, a vedere il tutto. La madre iniziò a prenderlo a schiaffi e a urlare: “Se lo rifai, ti uccido!”. Era seria, disperata, ma poi anche lei, come noi, scoppiò a ridere. Come fai a dire a uno “Se non ti metti al riparo dalle bombe ti uccido?”».
Negli anni Novanta c’erano le «bombe intelligenti». Surreale no?
«Propaganda. Quando mi etichettavano come poeta surrealista, rispondevo che sono realista, perché sono cresciuto a Belgrado tra le bombe. Non erano bombe immaginarie, ma reali. Dovevo essere realista. Ma nonostante gli scherzi, i giochi, nella poesia c’è qualcosa di fondamentalmente reale, di genuino, che si possa riconoscere: è quello che il lettore merita».
Per chi ha saputo ridere sotto le bombe, com’è ridere in tempo di pace: più facile? Più difficile?
«Oggi non trovo molto di realmente divertente, per colpa di Trump e del politicamente corretto. Non puoi scrivere un pezzo comico su di lui, perché non c’è niente su cui fare satira: Trump non è buffo, come tutti noi, è una creatura già grottesca. E non puoi forzare la mano, devi rispettare il politicamente corretto. L’umorismo oggi ha molti problemi negli Usa, perché si è sempre basato sulla scorrettezza e la ricchezza di etnie: 30 anni fa i comici prendevano tranquillamente in giro ebrei, italiani, polacchi. Se oggi dici “Come è fatta una matita polacca? Ha una gomma da entrambi i lati”, non saprai mai se fa ridere perché dicono che è razzista».
È vero che si è dedicato alla poesia per far colpo sulle ragazze?
«Volevo diventare un pittore, avevo talento, ma non abbastanza. La poesia la scoprii perché due ragazzi di cui ero molto amico leggevano e scrivevano poesia. Provai anch’io, ma ero scarso. Allora iniziai a leggere, in biblioteca, tantissimo, e poi un giorno notai che ad alcune ragazze piacevano le poesie dei miei due amici e pensai “ah-ah!”».
Ha mai pensato di scrivere in serbo, sua lingua madre?
«No. Se avessi voluto far colpo su una ragazza a Chicago e le avessi portato una poesia avrei dovuto dirle: Linda, è una poesia bellissima, te la leggerei, ma è in serbo, non capiresti nulla».
Sembra una scena di Woody Allen.
«Sì… sarebbe stato da idioti».
Le capita di parlare serbo?
«Raramente, solo quando i miei genitori mi appaiono in sogno».
Com’è stato il periodo a New York?
«Ero solo, non conoscevo nessuno, di giorno avevo un lavoro, di notte andavo a scuola, vivevo in un monolocale. Un periodo bellissimo: da solo fai più attenzione a quello che ti circonda, alla vita della strada, delle strade. Era una città etnica, quartieri divisi, tanti contrasti. Da Park Avenue, 5th Avenue in Midtown, fino a 2nd Avenue, 1st Avenue, c’erano caseggiati, vecchi edifici con le uscite antincendio, dove vivevano i poveri, ragazzi che giocavano a baseball per strada e madri che urlavano: “Mario, ti uccido”. Folle! Poi in poco arrivavi al Plaza, c’era lusso sfrenato, negozi, donne bellissime ed eleganti, limousine, un’altra vita. Al Village c’erano Philp Guston, Franz Klein, De Koning, c’era un bar in cui ci trovavamo».
Cosa pensa del Nobel a Bob Dylan?
«Mi piace Dylan, alcuni suoi testi sono molto belli, almeno una dozzina. Ma per la musica, la performance è parte integrante, i singoli testi sono sempre molto inferiori all’esperienza completa. Da questo punto di vista non avrebbe dovuto riceverlo, è una specie di insulto alla letteratura americana, come dire: questo è il meglio della letteratura americana, dimentichiamoci di scrittori come Philip Roth. Certe scelte sono spesso strane. Come quando ha vinto l’italiano, Dario Fo no? Mi piacciono le sue opere, ma meritava davvero il Nobel?»
Lei scrive che “le parole fanno l’amore sulle pagine come mosche nella calura”. Lei come le attira?
«Non sono uno di quelli che sanno già di che cosa scriveranno. Tutto parte dal linguaggio, una frase, a volte da un frammento d’esperienza, qualcosa che resta in testa. Metti delle parole sulla pagina, per associazione, immaginazione, le guardi, ci giochi e iniziano a svilupparsi in un certo modo, finché si esaurisce e smetti, devi fermarti, metterle da parte, poi torni, pensavi di andare a Roma e invece sei finito a Berlino. Una volta stavo mangiando, da solo, nel mio appartamento. Guardai la forchetta, dovevo averla rubata da un ristorante: era molto interessante, molto usata, diventò per me un soggetto, cercai le parole che trasmettessero l’esperienza visiva, la sua storia».
Lei dice che le sbronze possono essere buone o cattive, il cibo è sempre un’esperienza positiva.
«Conosco gente per cui non funziona, è sempre a dieta. È bello quando qualcuno cucina per te, o tu per lui».
Ha amici vegani?
«Sì, ma non troppi. Una volta Ira Sadoff, un vegano, Mark Strand ed io eravamo al Village per mangiare: io e Mark prendiamo sandwich con salame, ci mancava un dollaro, e Mark dice a Ira: “Dacci un dollaro”. E Ira: “No”. Perché? “Non posso dartelo... per quello!” e indica il panino, non stava scherzando. Alla fine ci ha ripensato e ce l’ha dato. Per me il cibo è un fatto sociale, non mi piacciono le prediche».
Polemiche «Il Nobel a Dylan è una specie di insulto alla letteratura americana. Ho dubbi anche su quello vinto da Fo»