Corriere della Sera

Gatlin il sopravviss­uto «Mi trattate da cattivo ma ho pagato per tutto»

- G. pic.

Quel grugno da Django Unchained indossato nei 100 per sbranare Bolt, cattivissi­mo senza dire una parola e sordo ai buuu dello stadio, è una maschera che non si toglie nemmeno per dormire. Estate 2006. Justin Gatlin, astro della velocità Usa fidanzato con Allyson Felix, la nuova Marion Jones con la coscienza lavata in candeggina, viene trovato positivo al testostero­ne e vivamente invitato dalla Federazion­e americana a portarsi quell’innamorame­nto nel limbo della squalifica. È la seconda, ben più grave. La prima alle anfetamine, risalente al 2001, era stata spiegata con i medicinali necessari a curare il deficit di attenzione che lo perseguita sin da bambino. Gatlin all’epoca è allenato da Trevor Graham: nove dei suoi atleti, Justin incluso, sono risultati positivi.

Caduto e rialzatosi due volte, costretto a rompere con la Felix, che sarebbe diventata l’atleta statuniten­se più vincente all’Olimpiade dopo Carl Lewis (6 ori, 3 argenti) e che non aveva bisogno di cattiva pubblicità all’inizio della carriera, Justin Gatlin è il sopravviss­uto a se stesso più di successo dell’atletica mondiale. Tra gogne mediatiche e sventure, squalifich­e e pernacchie, è stato oro olimpico ad Atene 2004, argento a Rio 2016 e tre volte re del mondo: Helsinki 2005 (100 e 200) e, sabato sera nella notte delle streghe, a Londra. Oltre alla sua resilienza, è la longevità a stupire: oro iridato a 12 anni di distanza, impresa tutt’altro che banale.

Quando è rientrato dal secondo stop, i meeting di cartello facevano a gara per schifarlo: non ti vogliamo, sporco dopato. Newyorkese cresciuto in Florida, a Pensacola, il figlio di Willie e Jeanette si è rimboccato le maniche, ripartendo da zero e trovando benzina nuova nella rabbia per le ingiustizi­e che crede di aver subito e nello sguardo del piccolo Jace, il figlio di sei anni: «Alla fine del giorno è a lui che devo rendere conto».

Essere scaricato pubblicame­nte da Sebastian Coe, presidente della Iaaf («L’oro di Gatlin nei 100 non è il copione perfetto: non posso essere entusiasta di un atleta che ha scontato due condanne e se ne esce con una delle medaglie più pregiate del Mondiale al collo…»), è l’ultimo affronto che lo yankee ha dovuto affrontare a Londra: la premiazion­e dello sprint, temendo il linciaggio del pubblico, ieri è stata anticipata prima delle gare, quando i tifosi stavano ancora riempiendo lo stadio e le tv non erano nell’orario di massimo ascolto. È andata meglio del previsto: fischi, seguiti da applausi, mentre Bolt rimasto di bronzo riceveva la solita ovazione. «Perché mi trattate da cattivo? Avete fatto di me un bad boy e di Bolt un eroe — si è lamentato con i media dopo il trionfo, durante una conferenza stampa tesissima —. Ho pagato, sono pulito. Persino Usain è venuto a stringermi la mano a fine gara».

Nell’inginocchi­arsi davanti all’idolo caduto, enfatizzan­done l’aura di immortalit­à, c’è il senso di Gatlin per l’atletica e la vita. Vivrà perseguita­to dai sospetti, è chiaro. Ma a 35 anni Justin sa ancora correre veloce.

Il figlio «So cosa pensano tanti ma alla fine del giorno io devo rendere conto solo a mio figlio Jace»

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Silenzio Justin Gatlin risponde ai fischi dello stadio olimpico di Londra

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