Justin e l’ingiustizia di essere maledetto per sempre
Passi per il pubblico, che paga il biglietto e fischia o applaude chi gli pare. Ma Seb Coe, il presidente della Federatletica mondiale, poteva evitare di dire che la «vittoria di Gatlin non è il massimo, e questa non è una giornata esaltante». La frase del baronetto ex mezzofondista è peggio dei fischi di un qualsiasi mister Smith o White e pessima è stata l’idea di premiare Justin Gatlin in anticipo, di nascosto, come fosse un ladro. E non vengano a raccontare che si è deciso così per risparmiare all’americano un’altra valanga di buuu: lui è abituato e non si fa intimidire. Qui bisognerebbe uscire dall’equivoco. L’americano è stato squalificato due volte, per un’anfetamina prima (un anno), per un anabolizzante dopo (otto anni poi ridotti a quattro da un arbitrato). Gatlin ha sempre proclamato la sua innocenza — e qui si è liberissimi di non credergli —, ma ha anche lavorato duramente per tornare a correre. Avrebbe potuto salutare tutti quanti, in fondo un’Olimpiade l’aveva già vinta, invece niente. Quattro anni di soli allenamenti, di ricostruzione della tecnica di corsa per ripresentarsi in corsia il 3 agosto 2010 e iniziare la risalita, tra i fischi e le pernacchie. Gatlin da allora ha corso col peso dell’etichetta di maledetto per sempre, pur avendo espiato, pur essendo diventato il miglior amico dei controllori della Wada. Anche chi finisce in galera, una volta che ne esce, ricomincia da 0-0. Gatlin no, è il baro, il disonesto, l’impostore a prescindere, anche se negli ultimi 11 anni ha superato un numero impressionante di test antidoping. Bolt gli ha dimostrato rispetto abbracciandolo dopo la finale dei 100. E Coe avrebbe fatto meglio a seguire l’esempio del fenomeno giamaicano, non quello dei 50 mila fischiatori dello stadio di Londra.