TRE LEZIONI A DIECI ANNI DALLA CRISI
Esattamente dieci anni fa iniziava la più grande crisi finanziaria del dopoguerra. In quell’estate molti prevedevano un altro 1929. Lo abbiamo evitato: oggi infatti ci riferiamo a quel decennio come il periodo della «Grande Recessione» non della «Grande Depressione», come quella degli anni Trenta. Lo abbiamo evitato perché dalla crisi del ’29 avevamo tratto alcune lezioni importanti. Ma anche la crisi dalla quale stiamo lentamente uscendo ci ha insegnato molto.
Cominciamo dalle lezioni del ’29. La prima è che le banche centrali non devono far mancare liquidità all’economia. Diversamente dal ’29 questa volta sia la Federal Reserve, sia la Bce (soprattutto dopo il 2011) lo hanno fatto senza esitazioni. Il merito di aver evitato un altro ’29 è soprattutto loro. La seconda lezione è che i fallimenti bancari vanno evitati per non provocare catastrofi anche peggiori. Negli Usa l’intervento quasi immediato dello Stato nel capitale delle banche fermò la crisi, e alla fine non costò nulla ai contribuenti, dato che il governo federale potè rivendere le azioni che aveva acquistato con un guadagno. In Europa, nonostante il ruolo delle banche nel nostro sistema finanziario sia più centrale che negli Usa, abbiamo impiegato molto tempo a capire l’importanza di intervenire con rapidità e decisione. Chi si è mosso prima, come Irlanda e Spagna, ha pagato costi importanti ma inferiori a chi, come Italia e Portogallo, ha atteso troppo a lungo, con il risultato che molti cittadini hanno perso i loro risparmi in modo inaccettabile.
LSEGUE DALLA PRIMA
a terza lezione è che lasciar salire il deficit dello Stato durante la crisi non è un errore. Lo hanno fatto gli Usa, la Francia, perfino la Germania e così hanno accorciato la durata della recessione e attenuato i suoi effetti. Il problema è che molti Paesi, come il nostro, erano entrati nella crisi con debiti pubblici già molto elevati e i mercati temevano un ripudio e l’avvio di una seconda crisi finanziaria. L’austerità era necessaria per evitare che la crisi riesplodesse. Certo, se avessimo impiegato gli anni precedenti — in cui la nostra economia era cresciuta in modo tutto sommato decente: + 1,2% l’anno in media fra il 2001 e il 2007 — per ridurre il debito, anziché per aumentare la spesa pubblica, l’austerità avrebbe e potuto essere rimandata a tempi migliori. Così purtroppo non è stato: in Italia, come in Grecia e in Portogallo. Infine, diversamente dagli anni Trenta, non siamo caduti (almeno fino ad ora) nella trappola del protezionismo anche se qualche scricchiolio si è avvertito.
È stato tutto perfetto? Certo che no. Innanzitutto non ci si era resi conto della fragilità finanziaria che fu la causa principale della crisi. Di questo sono colpevoli un po’ tutti: operatori sui mercati finanziari, banchieri centrali, regolatori, agenzie di rating e molti economisti, che fino al 2007 ritenevano di aver ormai raffinato gli strumenti per far fronte a una crisi e impedire che provocasse una recessione.
La risposta alla crisi messa in atto dall’amministrazione di Barak Obama sarebbe forse stata più efficace se invece di grandi progetti infrastrutturali, molti dei quali non hanno mai visto la luce, o la hanno vista troppo lentamente, avesse messo in campo riduzioni di tasse più decise. In Europa l’austerità sarebbe stata molto meno costosa se si fosse concentrata sui tagli di spesa, come in Irlanda e Gran Bretagna, anziché su aumenti della pressione fiscale come in Italia, nel biennio 2011-12. Della lentezza di alcuni Paesi, come il nostro, nel capire l’importanza di intervenire per stabilizzare le banche abbiamo già detto. Infine si sarebbe dovuto accettare subito un default della Grecia, anziché prolungare una confusa farsa per anni con l’unico scopo apparente di aiutare le banche tedesche e francesi.
E le lezioni per oggi? Negli anni Trenta l’intuizione di John Maynard Keynes di usare la spesa pubblica per stabilizzare l’economia fu geniale. A quei tempi però l’incidenza della spesa pubblica (e quindi della tassazione) sul Pil era metà di quella di oggi e lo Stato sociale non esisteva. Questa strada oggi ci è preclusa, se non vogliamo affogare in tasse e debito. L’unica soluzione alla scarsità mondiale di domanda (ammesso e non concesso che ci sia) sono i Paesi un tempo poveri e ora più ricchi (Cina e India in primo luogo) che col tempo risparmieranno di meno e acqui- steranno quantità maggiori dei nostri prodotti. Altro che bloccare la globalizzazione, con un nazionalismo economico. Scorciatoie protezionistiche sono impraticabili, abbiamo visto cosa è successo negli anni Trenta. Ed e per questo che il nazionalismo economico di Trump «Gli interessi americani sopra tutti gli altri» è preoccupante. C’è chi negli Stati Uniti parla di stagnazione secolare perché la crescita non pare riuscire a salire oltre il 2%, invece dello storico 3% o più. Alcuni economisti affermano di sapere perché: scarsa domanda (pubblica), disuguaglianze, che riducono i consumi delle famiglie, calo della produttività, salari che non crescono: la verità è che non sappiamo se davvero vi sia una la stagnazione secolare, e se ci fosse da che cosa dipenda. Sarebbe molto piu utile se gli economisti riconoscessero la difficoltà di capire un periodo anomalo e di grande incertezza invece di pronunciare «verità». L’incertezza è l’unico fulcro intorno al quale ruotiamo, e l’incertezza non aiuta a investire e crescere.
L’unica soluzione è diventare via via più produttivi e innovativi, in modo da ridurre i nostri costi e rendere più difficile a Cina e India imitare i nostri prodotti. Con tasse sul lavoro piu basse, maggiore produttività e soprattutto innovazione, la domanda cinese ci aiuterà, altrimenti quei Paesi diventeranno concorrenti imbattibili.
Protezionismi No ai protezionismi. Serve più competitività per intercettare la domanda di Cina e India