Corriere della Sera

«Il difficile non è arrivare ma restare a lungo sul podio»

Il direttore Mariotti debutta a Salisburgo: qui al momento giusto

- DAL NOSTRO INVIATO Valerio Cappelli

Nella prolifica generazion­e di direttori d’orchestra under 40, il numero 1 italiano è Michele Mariotti: il colore, la sensibilit­à, la morbidezza. Venerdì per la prima volta sarà al Festival di Salisburgo: I Due Foscari di Verdi in forma di concerto con la voce di Placido Domingo, così come ha fatto alla Scala. «Sono già stato a Salisburgo qualche anno fa, ma da spettatore, ascoltando mia moglie (il soprano russo Olga Peretjatko, ndr). Vengo dal Rossini Opera Festival di Pesaro, che è stato fondato da mio padre, e si respira la stessa aria frizzante e internazio­nale in una piccola città. Salisburgo è un tempio, penso di esserci arrivato al momento giusto, sono un fondista, ho sempre ponderato le mie scelte. Del resto decisi di diventare direttore a 22 anni».

Ha vinto il premio «Abbiati» 2016 della critica come migliore bacchetta, e Claudio Abbado, a mo’ di testimone, gliene lasciò una delle sue. «Non la uso, la conservo in modo timido, come era lui». Da ragazzo, quando scoprì la musica dopo essersi ubriacato di basket a Pesaro, Mariotti iniziò a costruirsi le bacchette da solo: «Mia nonna cucinava gli spiedini, io tenevo l’asta e con la carta vetrata modellavo i tappi di sughero delle bottiglie di vino». Il Rof di Pesaro ha appena Bacchetta Il direttore d’orchestra Michele Mariotti venerdì per la prima volta sarà al Festival di Salisburgo dove dirigerà «I Due Foscari» di Verdi rinunciato all’Orchestra di cui lei è direttore musicale, il Comunale di Bologna, e ha preso quella della Rai: «Mi è molto dispiaciut­o. Bologna dopo 30 anni aveva creato una tradizione, un valore aggiunto per decodifica­re il linguaggio di Rossini, se non lo conosci può sembrare superficia­le, invece c’è una profondità di pensiero dietro a quelle note».

Michele Mariotti è un «vecchio» di 38 anni, per la serietà con cui vive la musica, per il dolore della perdita di sua madre quando lui era adolescent­e. Dice che per certe Sinfonie di Mahler non si sente pronto, «nella lirica mi definiscon­o il giovane Mariotti, figuriamoc­i nella sinfonica. Ti gestisci in base a come vuoi costruire il tuo percorso. Non ho mai voluto mettere le bandierine, sul podio il difficile non è arrivare ma rimanerci». Bocelli e le incursioni nel belcanto dei tre ragazzi del Volo? «Bisogna rispettare ogni espression­e musicale, il problema è la mistificaz­ione, incasellar­e artisti in settori sbagliati».

Tornerà alla Scala: «Col mio primo Orfeo e Euridice di Gluck, dove vorrei evitare il rischio di rappresent­are personaggi come maschere rarefatte, ma uomini in carne e ossa». Con I due Foscari, continua la sua esplorazio­ne sul primo Verdi. «Ha un linguaggio diretto, non mi piace definirlo semplice ma sintetico, è una specie di Simon Boccanegra in incubatric­e dove c’è già la solitudine dell’uomo di potere, che poi Verdi svilupperà. L’inizio del secondo atto, l’assolo di violino e violoncell­o, è una dissertazi­one filosofica sul dolore. Domingo aggiunge umanità e carisma, alla Scala ho conosciuto la sua eleganza, la sua enorme educazione».

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