«Assegni a rischio se non cresce l’età per la pensione»
Il presidente dell’Inps, Boeri: crescita incontrollabile della spesa se cambia il meccanismo
Dopo l’estate è atteso il decreto ministeriale che dovrebbe adeguare i requisiti pensionistici alla speranza di vita, portando l’età minima a 67 anni a partire dal 2019, contro i 66 anni e sette mesi di adesso. Contro questo meccanismo si è creato uno schieramento politico bipartisan. Ma la Ragioneria di Stato lancia l’allarme e dice no a qualsiasi tentativo di modifica: «I meccanismi sono condizione irrinunciabile per la sostenibilità ma anche perché costituiscono la misura più efficace per sostenere il livello delle prestazioni», cioè l’importo degli assegni. Il presidente Inps Boeri: rischio di aumenti di spesa incontrollabili se cambia il meccanismo.
Non sarebbe soltanto un autogol per il «significativo peggioramento del rapporto fra spesa pensionistica e Pil». Ma causerebbe anche «un abbattimento crescente nel tempo dei tassi di sostituzione», ovvero del rapporto tra l’ultima retribuzione del lavoratore e l’assegno previdenziale. L’ipotesi dello stop all’adeguamento automatico dell’età di uscita alla speranza di vita — meccanismo stabilito da una legge dell’estate 2011 — induce la Ragioneria generale dello Stato a lanciare l’allarme nel rapporto sulle «Tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico». Il riferimento è alla possibilità che il governo — nel decreto che vedrà la luce dopo l’estate a pochi mesi dalle elezioni politiche — introduca il blocco alla modifica dell’età. Oppure ne decida un aumento più contenuto.
In teoria il meccanismo di adeguamento non lascerebbe margini di discrezionalità. L’età della pensione è legata alla speranza di vita a 65 anni, il tempo che in media resta da vivere una volta superata questa soglia. L’aspettativa di vita si sta allungando: per gli uomini si è passati dai 18,6 anni del 2013 ai 19,1 anni del 2016, per le donne da 22 a 22,4 anni. Per questo si ragiona su uno spostamento verso l’alto dell’età della pensione. Che potrebbe passare dai 66 anni e 7 mesi di adesso a 67 anni. L’innalzamento dei requisiti sarebbe contenuto in un decreto ministeriale, difficile da far passare senza malumori nell’opinione pubblica.
Al netto delle ricadute politiche, la Ragioneria generale dello Stato evidenzia l’effetto collaterale di una misura di breve respiro. Che comporterebbe il taglio progressivo dell’entità degli assegni nell’arco di cinquant’anni fino a raggiungere «12,8 punti percentuali per un lavoratore dipendente». Mantenendo invece l’automatismo il divario tra pensione e retribuzione non si scosterebbe di molto rispetto ai livelli di oggi. Il prezzo da pagare è l’abbandono ritardato dal mondo del lavoro, che aumenterebbe a 68 anni dal 2031 e a 70 anni dal 2057.
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, condivide l’impostazione della Ragioneria dello Stato: «Cambiare il meccanismo di adeguamento scatenerebbe aumenti di spesa incontrollabili. In questi anni abbiamo usato la riforma delle pensioni per ottenere sconti sul debito pubblico. Cambiare le regole adesso rischierebbe di far salire il costo anche su questo fronte, per di più alla vigilia della fine del Quantitative easing, che ha tenuto bassi i tassi di interesse». Per Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro del Senato, è però possibile «coniugare sostenibilità finanziaria e sociale» rallentando «l’automatismo per garantire una fase di transizione alle generazioni adulte».
Il decreto ministeriale L’adeguamento dell’età pensionabile sarebbe contenuto in un atto amministrativo