Educazione di un giovane borghese
Hugo ha undici anni: la sua esistenza viene sconvolta dall’arrivo di un’istitutrice. Bellissima
Siamo a Praga, nei primi decenni del secolo scorso. La città non è mai nominata, ma è facilmente riconoscibile per i nobili edifici medievali, i cortili, il «Parco delle lepri», le fontane, il fiume greve e sonnolento, i ponti in pietra e ferro che lo attraversano (tra i quali, quello più vecchio, bellissimo, irrigidito nel dolore «dei suoi gruppi di statue incatenate nella luce bruna o argentea»), i malinconici portoni stemmati dietro i quali si alza lo strepito delle birrerie, e i morti dei secoli che sembrano annidati in una torre cieca, in un vecchio mulino, o addirittura tra la folla che percorre le sue strade quando ormai il grande Impero austro-ungarico è una memoria del tempo.
Hugo, il protagonista di Piccoli amori (traduzione di Cristina Baseggio, Guanda), il romanzo breve e assai intenso di Franz Werfel, ha soltanto undici anni, ma, nel momento in cui lo incontriamo — nel letto della casa signorile acquistata dal padre, ateo, collezionista d’arte — forse perché ha avuto una dopo l’altra la scarlattina e la difterite, e talvolta le malattie producono nel corpo degli improvvisi mutamenti, sente un vero e proprio rigoglio fisico dentro di sé: il sangue che corre più forte nelle vene, la debolezza e la dolcezza delle membra che si rinsaldano, la forza rinnovata del respiro. E non solo. La fantasia che ha sempre avuto e ha nutrito con la lettura — correndo sulla pagina, saltando i passi e le righe, pur di raccogliere altre immagini tropicali, altre cavalcate di spettri, altre cacce selvagge, altre urla di assassini — adesso è davvero scatenata.
La sua fortuna, se si può dire tale, è che la istitutrice che fino a questi giorni lo ha accudito, Miss Filpotts, una donna severa e grigia, ha lasciato improvvisamente la casa, e i suoi genitori l’hanno sostituita con una nuova istitutrice che si chiama Erna. Erna, ventunenne, è il contrario esatto di Miss Filpotts. Come sanno fare soltanto i grandi scrittori, Werfel la descrive con pochi tocchi: alta, magra eppure formosa, una cascata di capelli biondi, «occhi grandi e lenti», «movimenti un po’ pigri». Lei non deve lasciare Hugo nemmeno un istante: lo deve lavare, cambiare, deve controllare che mangi, e la notte, poiché è alloggiata nella stanza contigua, deve lasciare la porta aperta per cogliere ogni suo respiro. Il primo bagno mattutino — così diverso da quello che imponeva Miss Filpotts — è un evento sconosciuto: vedere il proprio corpo nudo allo specchio, sentire le mani vigorose e morbide di Erna sulla sua pelle quando gli friziona il petto e le braccia, sentire la «nube profumata» che lo avvolge provoca in Hugo una vera e propria estasi di benessere e di piacere. E, pur non sapendolo, il ragazzino ammalato si innamora perdutamente.
Viene la primavera. Ogni pomeriggio Hugo e Erna vanno al parco. Qui, quasi subito, fa la sua comparsa il tenente Zelnik: ha l’elegante uniforme, la spada, sa dire qualunque cosa, anche la più banale, col tipico piglio militaresco. Un giorno, il tenente prende in disparte il ragazzino e, col tono che si usa allorché «fra grandi» si fanno delle confidenze, gli comunica che Erna deve partecipare e delle trattative segrete che possono svolgersi solo di notte, dunque dovrà uscire la notte, di nascosto dai suoi genitori, e lui — a meno di non volerla rovinare — dovrà tacere e mantenere il segreto.
Hugo accetta, giura di tacere. E, quella notte stessa, dopo essersi agghindata, Erna va a salutarlo. «Ecco, ora vado, Hugo!» gli dice, guardandolo con aria supplichevole e portandosi la sua mano al petto. Hugo ha un brivido che trattiene. Ma questo distacco — simile a una infinità di distacchi infantili da una donna amata, a loro volta simili alle estenuanti attese del bacio della buonanotte nel buio della stanza — è il suo primo dolore.
È un distacco che si ripete ogni sera. All’alba, Erna rientra e, come se avesse riposato tutta la notte, lo lava con la stessa alacrità, la stessa amorevole cura del primo giorno. I due sono congiurati. Finché, una notte, Erna ritorna prima: è scarmigliata, agitata, piange, sembra pazza, ha in bocca odore di vino. «È finita, mio piccolo Hugo, è finita!» gli dice torcendosi le mani. Hugo non sa, forse capisce. Passa qualche tempo. E al tenente Zelnik, il pomeriggio al parco, subentra il signor Tittel, impiegato alla prefettura. Costui — come Erna rispetto alla precedente istitutrice — è l’esatto opposto dell’ufficiale: brutto, vestito male, freddoloso anche quando fa caldo, noioso, antipatico, appassionato di orari ferroviari che di continuo compulsa seguendo le righe con l’appuntita e spropositata unghia giallognola del mignolo. Erna non ama Tittel, ha tutta l’aria di sottoporsi a un dovere per il bene di qualcun altro. Hugo, che in questi pochi mesi sta venendo a contatto con un mondo che finora il rigido ambiente famigliare ha escluso dalla sua vista, di nuovo capisce. Non solo. Presto sarà testimone di un litigio furioso; ascolterà accuse infamanti nei confronti della sua Erna («Dimmi subito con chi hai avuto rapporti negli ultimi tempi, tu, tu…»). E stavolta è davvero troppo. È un enigma che lo fa ansare — quasi fosse tornato malato — per la fatica di risolverlo, per aiutare lei che piange.
Con quale finezza, Franz Werfel — autore de I quaranta giorni del Mussa Dagh, uno dei pochi romanzi epici del secolo scorso in cui si narrano la persecuzione
Il tempo e la scena Siamo a Praga nei primi decenni del secolo scorso. L’Impero austro-ungarico è ormai una memoria
e il genocidio degli armeni — entra nella psicologia dell’adolescente, nei suoi turbamenti, in quello spazio fragile e oscuro, lasciandolo, come deve essere, indefinito.
Con quanta sapienza sposta la sua educazione sentimentale a una educazione più completa e profonda della vita. Erna, infatti, scopre di essere incinta, vuole consultarsi con la sua famiglia, e porta con sé Hugo sempre ignaro di tutto, solo in uno stato di febbrile preoccupazione. La famiglia vive in un quartiere povero e cupo della città. In un palazzo degradato che a Hugo appare come una fuga di cortili e ambienti che, col procedere, diventato sempre più bui e opprimenti. In fondo c’è la madre, una donnetta che si pulisce continuamente le mani sul grembiule e, col suo atteggiamento servile, mette in imbarazzo Hugo. In corridoio incombe la figura sofferente di un Cristo appeso al crocifisso. Sulle pareti, in abito da cerimonia, guardano dal nulla le fotografie dei defunti.
Quando arriva Albert, il fratello paralitico e rissoso di Erna, il senso di miseria e di morte schiaccia letteralmente Hugo. Ha sentito che Erna dovrà rivolgersi a una certa Seifert per risolvere un problema che forse intuisce, che sono necessari dei soldi, che la sua Erna è in pericolo. Così, quando ritorna a casa, chiede a sua madre se loro sono ricchi, e che cos’è la povertà. Poi, rivela quello che ha ascoltato nella casa in cui non sarebbe dovuto andare.
Ma, a questo punto, il romanzo di formazione è finito. Il ragazzino ha «visto tutto»: è stato il tramite di ogni aspetto del racconto; il viaggiatore coraggioso e tremante — scortato da nessun Virgilio — nelle atmosfere malinconiche e cupe di un’epoca finita, nella quale le ultime scintille possibili sono ancora quelle — non limpide, però, morbose, sofferenti — dell’amore. Ora, a lui, penseranno i suoi genitori. Erna fa un ultimo bagno a Hugo e scompare. Nella stanza entra un brillante professore coi baffi. La solida famiglia borghese ha messo le cose a posto.