Il nonno non mi abbracciava (e fu allora che cominciò la poesia)
Per tutti viene il momento di un dialogo interiore, che spesso può concludersi in dissidio. A dominare non è l’eros, frutto della bramosia della carne che schiavizza la mente. Piuttosto interloquiscono l’io stupito dal veloce trascorrere delle generazioni nel rimpianto per gli anni passati e quel poco che resta, di contro l’io deciso a scrivere per esistere oggi e in futuro. Sottotraccia interagiscono inquietudine, delusione della condizione umana, senso della caducità, virile accettazione del proprio destino, che deflagrano assieme nel volume Il nostro tempo di Giovanni Bracco (La Vita Felice).
Nato nel 1961 a Polla (Salerno), romano d’elezione, diplomato in pianoforte e giornalista, l’autore, che giunge ora alla sua seconda prova poetica dopo la sensuale raccolta Le grandi mani calme del 2015, ha sempre vissuto alternando Bach a Petrarca, Mozart a Proust, Chopin a Ovidio. Musica e poesia sono un tutt’uno anche nell’analisi delle sue liriche. La conflittualità della riflessione filosofica trova riscontro nell’aspetto formale.
La silloge è divisa in tre sezioni, le prime due con andamento perlopiù endecasillabico, l’ultima con essenzialità davvero estrema, a volte esplicitata quasi in forma di haiku o di un unico verso o di due. Pure tripartita è la materia: sul filo della memoria la prima parte fotografa i cari defunti, dal nonno ai genitori, con vibrante emozione; anche la seconda richiama eventi che fanno affiorare ricordi, in questo caso dedicati alle adorate quattro figlie, con il rammarico che non potrà essere sempre accanto a loro; nell’ultima lo scrittore attenua il dolore di dover morire nel raggiungimento di un equilibrio di pensiero, nel dominio del mondo inconscio, nella consapevolezza di vivere appieno il tempo concessogli. Così il verso che conclude il libro è «io scrivo per restare».
I testi più intensi della silloge sono quelli relativi agli affetti che si perpetuano all’interno del nucleo familiare. La descrizione del nonno, che non gli diede mai neppure una carezza, appare sobria, terrestre, genuina, etica. Di lui Giovanni Bracco scrive: «Se nonno mi portava ero contento./ Nonno mi raccontava e mi insegnava,/ ma non parlava più del necessario./ Nonno sta tutto in due fotografie:/ fiero mentre travasa damigiane,/ seduto di profilo in bianco e nero/ davanti alla casetta della vigna,/ assorto — non ti ho mai visto sorridere,/ un lampo di allegria le rare volte./ ...». Una figura decisiva per la formazione del poeta, segnato da quell’antica concentrazione osservata nel silenzio.
Della mamma emerge il frammento della mano bianca sul letto di morte, che un attimo prima «si è levata un poco/ additandomi un punto indefinito». La fine del padre Vittorio, docente di Lettere, archeologo ed epigrafista, viene sancita dal figlio, che gli mette due penne nel taschino per prepararlo all’ultimo viaggio, mentre «ho stretto attorno al polso/ il tuo orologio che batteva ancora». È sull’esempio del papà che il poeta imparò a baciare le proprie figlie con «silenziosa gratitudine», come se ogni volta si trattasse di un dono straordinariamente nuovo.
Stile Una silloge scandita in tre parti, le prime due nel segno dell’endecasillabo