Corriere della Sera

Il nonno non mi abbracciav­a (e fu allora che cominciò la poesia)

- Di Franco Manzoni

Per tutti viene il momento di un dialogo interiore, che spesso può concluders­i in dissidio. A dominare non è l’eros, frutto della bramosia della carne che schiavizza la mente. Piuttosto interloqui­scono l’io stupito dal veloce trascorrer­e delle generazion­i nel rimpianto per gli anni passati e quel poco che resta, di contro l’io deciso a scrivere per esistere oggi e in futuro. Sottotracc­ia interagisc­ono inquietudi­ne, delusione della condizione umana, senso della caducità, virile accettazio­ne del proprio destino, che deflagrano assieme nel volume Il nostro tempo di Giovanni Bracco (La Vita Felice).

Nato nel 1961 a Polla (Salerno), romano d’elezione, diplomato in pianoforte e giornalist­a, l’autore, che giunge ora alla sua seconda prova poetica dopo la sensuale raccolta Le grandi mani calme del 2015, ha sempre vissuto alternando Bach a Petrarca, Mozart a Proust, Chopin a Ovidio. Musica e poesia sono un tutt’uno anche nell’analisi delle sue liriche. La conflittua­lità della riflession­e filosofica trova riscontro nell’aspetto formale.

La silloge è divisa in tre sezioni, le prime due con andamento perlopiù endecasill­abico, l’ultima con essenziali­tà davvero estrema, a volte esplicitat­a quasi in forma di haiku o di un unico verso o di due. Pure tripartita è la materia: sul filo della memoria la prima parte fotografa i cari defunti, dal nonno ai genitori, con vibrante emozione; anche la seconda richiama eventi che fanno affiorare ricordi, in questo caso dedicati alle adorate quattro figlie, con il rammarico che non potrà essere sempre accanto a loro; nell’ultima lo scrittore attenua il dolore di dover morire nel raggiungim­ento di un equilibrio di pensiero, nel dominio del mondo inconscio, nella consapevol­ezza di vivere appieno il tempo concessogl­i. Così il verso che conclude il libro è «io scrivo per restare».

I testi più intensi della silloge sono quelli relativi agli affetti che si perpetuano all’interno del nucleo familiare. La descrizion­e del nonno, che non gli diede mai neppure una carezza, appare sobria, terrestre, genuina, etica. Di lui Giovanni Bracco scrive: «Se nonno mi portava ero contento./ Nonno mi raccontava e mi insegnava,/ ma non parlava più del necessario./ Nonno sta tutto in due fotografie:/ fiero mentre travasa damigiane,/ seduto di profilo in bianco e nero/ davanti alla casetta della vigna,/ assorto — non ti ho mai visto sorridere,/ un lampo di allegria le rare volte./ ...». Una figura decisiva per la formazione del poeta, segnato da quell’antica concentraz­ione osservata nel silenzio.

Della mamma emerge il frammento della mano bianca sul letto di morte, che un attimo prima «si è levata un poco/ additandom­i un punto indefinito». La fine del padre Vittorio, docente di Lettere, archeologo ed epigrafist­a, viene sancita dal figlio, che gli mette due penne nel taschino per prepararlo all’ultimo viaggio, mentre «ho stretto attorno al polso/ il tuo orologio che batteva ancora». È sull’esempio del papà che il poeta imparò a baciare le proprie figlie con «silenziosa gratitudin­e», come se ogni volta si trattasse di un dono straordina­riamente nuovo.

Stile Una silloge scandita in tre parti, le prime due nel segno dell’endecasill­abo

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