Corriere della Sera

LA CULTURA GIURIDICA DELL’ITALIA VA RIFORMATA

Dibattito Il freno all’impresa e all’innovazion­e non è colpa dei Tar, ma della concezione che i magistrati (e di riflesso gli avvocati) hanno del diritto e di sé

- Di Luca Enriques

Tra i tanti fattori che ostacolano la crescita dell’economia italiana, la giustizia amministra­tiva finisce regolarmen­te tra i soliti sospetti, come ci ha ricordato Gerardo Villanacci (Corriere della Sera, 4 agosto). Ma, replica Giulio Napolitano (7 agosto), qual è l’alternativ­a? Far confluire la giustizia amministra­tiva in quella ordinaria porterebbe solo a un allungamen­to dei tempi e a una despeciali­zzazione dei giudici. In effetti, non è che i Tar e il Consiglio di Stato sfigurino rispetto alla magistratu­ra ordinaria: le loro decisioni che incidono sull’iniziativa economica, sempliceme­nte, fanno più spesso notizia di quelle dei giudici civili.

Se l’amministra­zione della giustizia frena l’iniziativa economica, privata o pubblica, e gli investimen­ti, non è perché è articolata in un certo modo, ma perché riflette una cultura giuridica essa stessa di ostacolo all’impresa e all’innovazion­e. Più precisamen­te, il problema è la concezione che i magistrati (e di riflesso gli avvocati) hanno del diritto e di sé.

Il diritto, per il giudice italiano, non è strumento che serve gli individui e le loro formazioni sociali, per agevolarne le interazion­i, ma ordine superiore al quale la realtà economica deve piegarsi. Il ruolo del giudice è quello non di dare una soluzione prevedibil­e a una controvers­ia sulle base di regole di interpreta­zione ben definite (riducendo l’incentivo stesso a ricorrere ai tribunali), ma, quando va bene, di trovare la soluzione che nel caso singolo meglio realizza il valore costituzio­nale della solidariet­à e/o che assicura l’esercizio della proprietà e della libertà di iniziativa economica entro i confini della loro funzione o utilità sociale. Le ragioni dello sviluppo economico, sia pure compresse nella più dignitosa dizione dell’esigenza di certezza del diritto o in quella più mondana di «buon senso comune», non hanno alcuna influenza sul sistema di valori che, implicitam­ente o esplicitam­ente, è alla base delle sentenze.

Ed è ovvio che la lettera della norma non conta: tanto, è scritta male. Ma è un circolo

vizioso: perché Parlamento e governo dovrebbero sforzarsi di scrivere bene le norme, se poi i giudici hanno enormi margini per re-interpreta­rle a proprio piacimento?

Né aiuta la concezione che spesso (e con le dovute eccezioni) i magistrati italiani, come tanti funzionari pubblici, hanno di sé: non di soggetti che prestano un servizio ai singoli utenti che si rivolgono loro, ma di titolari di un potere che la cultura giuridica prevalente, come si è appena visto, rende quasi assoluto. Di qui, nella peggiore delle ipotesi, i casi di corruzione che pur- troppo non risparmian­o le magistratu­re ovvero, secondo un malcostume purtroppo diffuso, l’esercizio della funzione come dispensa di favori a questa o quella parte, a questo o quell’avvocato.

Si può ovviamente dissentire dall’idea che l’obiettivo della crescita economica o anche solo l’aspirazion­e alla certezza del diritto possano giustifica­re la riduzione dei margini che un giudice ha per venire incontro, in piena buona fede, alla parte più debole di un contratto, al consumator­e che non aveva capito che servizi stesse acquistand­o, e così via. Il punto è che non sono il riparto della giustizia tra ordinaria e amministra­tiva, la distinzion­e tra interessi legittimi

Prospettiv­a Il diritto dovrebbe essere strumento per i cittadini, non un ordine superiore cui la realtà va piegata

e diritti soggettivi o le tecnicalit­à dell’ordinament­o giudiziari­o i veri ostacoli all’iniziativa economica. È piuttosto una cultura giuridica stratifica­tasi nel corso di decenni: ritocchi ai codici o gattoparde­sche riorganizz­azioni non la scalfirebb­ero.

Lungi da me l’idea di concludere con un proclama per la rifondazio­ne della cultura giuridica italiana. Ma chi avesse sinceri istinti riformator­i non potrebbe esimersene. Professore di diritto

societario Università di Oxford

Cambiament­o radicale Ritocchi ai codici o gattoparde­sche riorganizz­azioni non scalfirebb­ero il sistema

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