RETORICA (E RISCHI) DI GUERRA
Donald Trump usa le parole di John Wayne in un film di guerra, «locked and loaded» (un’arma carica, pronta all’uso), per minacciare ancora una volta, la terza, di devastare la Corea del Nord se Kim Jong-un non cambia rotta sui preparativi nucleari e in America, il timore che la crisi finisca fuori controllo, sale improvvisamente alle stelle.
Fin qui era diffusa la sensazione che la «guerra delle parole» sarebbe rimasta tale e l’opinione pubblica era, in parte, distratta dai fatti nuovi nell’inchiesta Fbi sulle interferenze di Mosca nelle elezioni Usa e dallo scontro fra Trump e il suo partito, i repubblicani, per il mancato smantellamento della riforma sanitaria di Obama. Tra l’altro, a ben guardare le sortite del presidente americano, spazi di manovra sembrano essercene ancora: Trump lancia avvertimenti ultimativi, fa intravedere scenari apocalittici ma, mentre nei giorni scorsi aveva promesso di intervenire anche contro nuove «minacce», ora parla di «azioni» e si augura che il dittatore nordcoreano cambi rotta.
Eppure la tensione sale e l’allarme si diffonde anche in Cina (avverte Kim che se attacca dovrà cavarsela da solo, a meno che non siano gli americani ad agire per primi), in Russia (che giudica molto alto il rischio di conflitto e invita chi è più forte, l’America, a essere anche più prudente e responsabile) e si fa sentire perfino la cancelliera tedesca Angela Merkel (basta con l’«escalation» della retorica).
Questo nuovo clima da «allarme rosso» è legato a due fattori. Da un lato la sensazione che la guerra delle parole sia diventata una spirale della quale può essere perso il controllo in qualunque momento: «L’escalation verbale è micidiale ed è proprio ciò che desidera Kim Jongun, lo tiene al centro della scena mondiale», avverte il generale James Thurman, uno che quella regione la conosce bene, visto che è stato capo delle forze Usa in Sud Corea. In secondo luogo, se la prospettiva di un attacco nucleare generalizzato degli Stati Uniti rimane abbastanza remota, con la minaccia di Pyongyang di effettuare tra qualche giorno un lancio «dimostrativo» di missili verso l’isola americana di Guam, aumentano i rischi di una risposta militare Usa circoscritta, come il bombardamento della base dalla quale starebbero per partire i missili coreani.
Ma la Corea non è la Siria, colpita mesi fa da Trump con un’azione di rappresaglia circoscritta alla base aerea dalla quale sono partiti i bombardieri che hanno sganciato ordigni chimici. Pyongyang può colpire facilmente, anche con armi convenzionali, la Corea del Sud e il Giappone. Seul è alla portata dell’artiglieria di Kim. È chiaro che ogni azione, anche limitata, rischia di alimentare reazioni a catena incontrollabili.
E l’opinione pubblica Usa, sconcertata, si trova a discutere di opzioni che riteneva impensabili e di problemi mai considerati fin qui. Il Congresso può impedire a Trump di lanciare un attaco nucleare? Forse sì, ma verrebbe stabilito un precedente pericoloso per la difesa americana da eventuali altri attacchi. Se Kim lancia i suoi vettori, gli Usa possono abbatterli coi loro missili antimissile? Sì, ma nessuno sa quanto valide siano queste difese. Se lo scudo, mai sperimentato, mostrasse delle falle, sarebbe un disastro.