Corriere della Sera

Mangiare Fintonno con lo Strachicco

- Di Costanza Rizzacasa d’Orsogna

tu hai mai provato il fintonno? E il muscolo di grano, lo Strachicco? Che mangeranno mai questi vegani? Il linguaggio dell’alimentazi­one cruelty-free ha fatto passi avanti. Mai come negli USA, dove i nomi hanno del genio - come la marca Neat, che sta per «no meat» ma vuol dire anche «figo», o Pig Out, che vuol dire «abbuffarsi» ma anche che il maiale è «out». Lì il fintonno (di soia o ceci) si chiama «fishless tuna», cioè tonno senza pesce. Ricordano le storie, raccontate da Filippo La Mantia, della cucina povera e d’ingegno della Sicilia d’un tempo. Come la «pasta con le sarde a mare», perché non c’erano soldi per comprarle. C’è la Mozzarisel­la, anche fumé, che è di riso come lo Strachicco; la soianese o veganese. C’è il formaggio No-Muh, simile alla toma, il sushi di frutta (frushi) e il tomato sushi, che sembra tonno rosso. Spesso, basta sostituire le «n» e «v«. Così il gelato diventa nice cream, e nascono simpatici orrori come «mortavella», «velami», «vebab». E poi il caviale Cavi-art, il bacon «fakon», il formaggio Sheese. Anche i vegani che sgarrano hanno un nome: chegan.

E se molti contestano parole come «finto» e «imitazione», perché alimentano l’equivoco di una cucina plasticosa e insipida, la guerra è sui nomi di preparati di carne, come i wurstel di soia. «Questione di marketing», spiega il sito veg BeLeaf. «Comunicare il prodotto a chi non sa cos’è il seitan, in attesa di dare ai nostri cibi i migliori nomi new age». Fette di luna alla quinoa, mandorlato di tempeh montanaro.

CostanzaRd­O

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