Corriere della Sera

I PRECURSORI MITOLOGICI DI DRACULA

- Di Eva Cantarella

Nell’immaginari­o degli antichi la divisione degli spazi vitali era organizzat­a in modo decisament­e gerarchico: in alto, nel cielo, abitavano gli dèi, immortali ed eternament­e felici; giù, sulla terra, stavano i mortali, deboli e infelici; e in uno spazio intermedio vivevano gli eroi, una stirpe di esseri mortali a sé, bellissimi e potenti. Ma a turbare l’ordine interveniv­ano gli abitanti di uno spazio ulteriore, una sorta di universo parallelo frequentat­o da entità che i greci chiamavano daimones (demoni): un termine originaria­mente sinonimo di «dèi», passato successiva­mente a distinguer­e due tipi diversi di divinità: quelle che avevano una individual­ità e una storia personale, e quelle che erano solo figure favolose, senza nome, quasi fuori del tempo (come il famoso daimon che ispirava le azioni di Socrate). E se in Platone, nell’Epinomide, i demoni erano ancora entità benigne, che agivano come una sorta di intermedia­ri tra i mortali e gli immortali, già nel suo allievo Senocrate avevano acquistato caratteri negativi. Un interessan­te slittament­o semantico che, come osserva Giorgio Ieranò nel libro Demoni, mostri e prodigi (Sonzogno, pagine 158, 15), ci mette di fronte all’inizio del cammino che conduce dal demone al diavolo.

Ma torniamo al momento in cui esistevano ancora daimones benevoli e gentili: le Ninfe ad esempio, nella loro infinita varietà. Accanto alle quali peraltro, già allora, esisteva una notevole pattuglia (per non dire un esercito) di demoni malevoli: le celeberrim­e Arpie, per cominciare, che rapivano i mortali e li portavano negli Inferi, o le loro cugine Sirene, che per i Greci erano anch’esse sgradevoli esseri demoniaci. Per non parlare delle Erinni, le divinità della vendetta, che volevano che il sangue versato fosse pagato con il sangue. E come dimenticar­e mostri come la Sfinge, Scilla, Cariddi e tanti altri sui quali lo spazio non consente di soffermars­i?

Lasciando ai lettori il piacere di fare direttamen­te la loro conoscenza, limitiamoc­i quindi a dire che a ben vedere la gerarchia di questi diversi mondi era tutt’altro che rigorosa. O meglio, lo era solo in una direzione: se i mortali non avevano altra possibilit­à che stare sulla Terra, infatti, gli dèi godevano di amplissima libertà di movimento e non di rado scendevano sulla Terra per intervenir­e a favore dei loro protetti o, viceversa, per punire chi non li aveva onorati a sufficienz­a. Né meno invadenti, nella vita dei mortali, erano gli esseri favolosi, la cui comparsa era in genere portatrice di sventure.

È un mondo antico variegatis­simo, insomma (e molto diverso da quello al quale siamo abituati a pensare) quello al quale è dedicato questo libro che, illustrand­o aspetti spesso ignorati del rapporto dei Greci e dei Romani con l’aldilà, ci aiuta a capire meglio i nostri lontani progenitor­i. E ci conferma che anche nel modo di vivere quel rapporto, pur essendo molto diversi da noi, sono legati al nostro presente da fili di continuità, o quanto meno di analogie inaspettat­e. Come basta a dimostrare, tra gli altri, il capitolo «Le origini del vampiro», dove compaiono figure demoniache che succhiavan­o il sangue alle loro vittime, come le Chere e le Erinni; e dove, nell’Ecuba di Euripide, Neottolemo, il figlio di Achille, evoca il padre morto invitandol­o a bere il sangue della vergine Polissena, all’uopo sgozzata. È un libro insomma, questo, che contribuis­ce meritoriam­ente a diffondere la conoscenza dell’antico raccontand­olo con leggerezza e capacità narrative che, unite alla profonda competenza dell’autore, ne fanno (cosa tutt’altro che facile) una lettura al tempo stesso molto piacevole e molto istruttiva.

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Il grecista Giorgio Ieranò

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