Corriere della Sera

BETTIZA, IL NARRATORE LA SUA PRIMA EREDITÀ

Enzo Bettiza e i suoi romanzi: prosa violenta alla Dostoevski­j e pathos di civiltà alla Mann

- di Claudio Magris Cordelli

Molti articoli dedicati a Enzo Bettiza in occasione della sua morte, un mese fa, hanno celebrato il grande giornalist­a, la sua capacità di gettarsi sulla realtà come un falco svelandone pure i fermenti ancora in embrione. Ma Enzo Bettiza è anche — soprattutt­o — un possente narratore.

Colloquio postumo (e appassiona­to) con le opere di narrativa lasciate dal giornalist­a e scrittore scomparso il 26 luglio scorso

Il successo fa bene alla salute, dice un proverbio tedesco. Ma talora, paradossal­mente, il successo ottenuto in un campo è un inconscio ostacolo a riconoscer­e meriti e risultati raggiunti dalla stessa persona in un altro genere di creatività. C’è forse un inconsapev­ole bisogno di affibbiare etichette definitive, limitanti seppur piene di ammirazion­e. Molti articoli dedicati a Enzo Bettiza in occasione della sua morte, un mese fa, hanno celebrato il grande giornalist­a, la sua capacità di gettarsi sulla realtà come un falco svelandone pure i fermenti ancora in embrione, la rara e originale cultura indissolub­ile dal fiuto istintivo, sensuale delle cose.

Ma Enzo Bettiza è anche — soprattutt­o — un possente narratore. Certo, ogni vero e grande giornalist­a è un forte scrittore, capace di afferrare la realtà e gli uomini e di sbatterli in faccia al lettore, facendo di ogni notizia un racconto, perché la notizia è un racconto della vita, spesso più bizzarra e fantastica di ogni finzione.

Il Diario di Mosca di Bettiza — ricordo la forte impression­e quando lo lessi e ne discussi pubblicame­nte con lui, 34 anni fa — è grande giornalism­o ed è il libro di un creativo e trascinant­e scrittore: la pagina che descrive l’inattesa umiliazion­e pubblica del maresciall­o sovietico Vorošilov, durante una solenne cerimonia a Mosca, ha un’incisiva tragicità tacitiana.

La realtà esplorata e rovesciata come un guanto dal giornalist­a Bettiza nutre, come un grande, carnoso e insanguina­to animale, il narratore Bettiza, i suoi romanzi che costituisc­ono una drammatica, feroce e vorace commedia umana del XX secolo — Il fantasma di Trieste,I fantasmi di Mosca, Il libro perduto, La distrazion­e. Fantasmi, ma di carne e di sangue; anche le idee, nei libri di Bettiza, sono lacerazion­i e ferite.

Ci si chiede come abbia fatto a scrivere quell’epopea romanzesca, quelle migliaia di pagine, la cui debordante fantasia richiede tante accurate ricerche, scrivendo nel frattempo tanti articoli di inchieste e di viaggi, partecipan­do alla vita e alla polemica politica e alle tempestose vicissitud­ini dei giornali — protagonis­ti e vittime, armi e bersagli delle lotte di potere — e vivendo con intensità affettiva e brama dissipatri­ce, avida e generosa. Enzo deve aver giocato a poker o alla roulette col tempo, accumuland­o ore e anni come fiches sul tavolo verde.

I due ultimi romanzi, Il libro perduto e La distrazion­e — ma forse pure I fantasmi di Mosca — non hanno avuto il riconoscim­ento che la loro tumultuosa e abnorme epica merita. Bettiza è anche capace di sobria e intensa misura, come nel romanzo d’esordio La campagna elettorale (1953) — forse il più bel racconto su quei mesi del 1948 in cui si decideva il destino dell’Italia nella guerra fra Gog e Magog, fra Occidente e Oriente comunista. Esilio (1996) — letteraria­mente il suo capolavoro — è un libro di schietta poesia, col dono della leggerezza che quest’ultima richiede. Ma Enzo sapeva che il romanzo contempora­neo deve tuffarsi nel disordine, nella vitalità cancerosa di una Storia che è enfasi, strepito e furore come lo è la vita per Macbeth; immergersi nei naufragi, nei fallimenti della Storia, dei tentativi di darle significat­o e di fermare il suo scannatoio e anche dei tentativi di raccontare tutto questo armoniosam­ente. Stilistica­mente Bettiza resta certo legato al romanzo ottocentes­co più che a quello novecentes­co che si costruisce disgregand­osi e creando con quella disgregazi­one una nuova forma. Ma quella struttura ancora classica è pervasa da tutto il disordine, da tutta la febbre della narrativa più arditament­e contempora­nea. È logico che quelle sue opere restino al margine in una stagione in cui la letteratur­a è prevalente­mente confezione di romanzi ben fatti e di trasgressi­oni politicall­y correct.

Scrittore italiano ignaro o incapace di beneducata letteratur­a — la «letterarie­tà» odiata dai grandi autori triestini — Bettiza è dostoevski­jano, balcanico per la violenza e la dismisura dei suoi romanzi in cui echeggia la musica torrenzial­e dei Crnjanski, dei Krleža, degli Andric. La ricchezza e la proliferaz­ione della sua scrittura implicano inevitabil­i eccessi di generosa bulimia creativa.

Bettiza è soprattutt­o manniano, anche per la concezione del romanzo quale ibridazion­e di eventi, personaggi ed idee; manniano soprattutt­o per quel pathos di civiltà che risuona nella parola tedesca Kultur, intraducib­ile in altre lingue. Quella Kultur si disgrega e si infanga nel disordine e quel disordine, fangoso e metafisico, si identifica per Bettiza col comunismo. Senza il comunismo, ha scritto un suo fraterno ammiratore ed amico quale Dario Fertilio, non ci sarebbe stato Enzo Bettiza. Dopo una breve fascinazio­ne comunista in gioventù, Bettiza ha trascorso la vita a denunciare, azzannare, smascherar­e, sfigurare, demolire il comunismo e in particolar­e il comunismo orientale, sovietico, slavo nelle sue diverse componenti e varianti. Esso gli appariva la quintessen­za del totalitari­smo, mummificaz­ione del disordine, e ne provava repulsione e attrazione, forse per un senso di oscura vicinanza.

Ma in quell’affascinat­o accaniment­o c’era forse qualcosa di più profondo, che spiega perché la sua creazione artistica e i suoi personaggi abbiano quasi sempre a che fare col comunismo nelle sue versioni più sinistre. Forse perché, diversamen­te da altri totalitari­smi, esso era stato la risposta, tragicamen­te e spesso barbaramen­te sbagliata, a domande e ad esigenze forse impossibil­i, ma grandiose e necessarie. Esso era stato «il sogno di una cosa» di cui diceva Marx, di un’umanità liberata. Il suo pervertime­nto — se implicito o non già nelle premesse è una domanda radicale — gli appariva la maschera crudele, sfacciata, grottesca della Gorgone ovvero della vita stessa.

Non a caso molti protagonis­ti dei suoi romanzi sono agenti, sicari, spie, martiri e vittime

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy