Le molte vite di un amico
Chissà com’era la scrittura (la grafia) di Enzo Bettiza prima della Olivetti e del computer? Mi piace immaginare fosse simile a quella di Daniele Solospin, il protagonista del suo romanzo di formazione, Il fantasma di Trieste: «Fatto sta che, nei tre quadernetti, quasi beffeggiando l’immagine “politica” che di sé lascia ufficialmente ai posteri, Daniele, con una scrittura pur sempre austera, da storico più che da letterato, ha voluto profondere un estro, una civetteria, una spregiudicatezza d’analisi leggermente esibizionistica e, in un uomo come lui, più che mai stupefacente». Negli anni Ottanta ho abitato a Milano, avevo il numero di telefono sull’elenco, ne ero orgoglioso. Ma non riesco a ricordare come conobbi Enzo Bettiza. So che si andava a cena e invitava lui, non eravamo soli, sempre più di due. Era lui a tenere banco, era lui a raccontare, era Enzo — che aveva 16 anni più di me ma che di mondo ne aveva visto il triplo, il quadruplo — era Enzo a rendere memorabili quelle serate. Al di là dell’età non riuscivo però a capire la natura del nostro rapporto. M’era impossibile pensare a un uomo più lontano da me, dal mio carattere, sia nelle cose di politica che in quelle di letteratura; lui, come il suo Daniele, era comunque austero; io, per quanto domato, ero un selvaggio. Poiché smisi di essere «milanese», per una quantità di anni non ci vedemmo. Ma all’improvviso, a Roma, divenimmo amici. Ancora era lui a invitare a cena, era lui a profondersi, a distribuire, a raccontare. In questa fase ci siamo visti quasi sempre da soli, lui e io, in quel ristorante davanti a Villa Glori, a pochi passi dalla casa in cui abitava. Lo riaccompagnavo, i suoi racconti erano a volte estrosi, a volte spregiudicati (ancora Solospin), a volte malinconici. Aveva conosciuto tutti, aveva visto tutto, mi ha trasmesso l’idea che una vita può essere fatta non d’una sola vita ma di due o tre o quattro. Esilio e I fantasmi di Mosca, i suoi grandi e anche sterminati romanzi, non li penso che come una relativa parte della sua esperienza. Da un po’ di tempo non lo sentivo, pensavo stesse scrivendo a testa bassa, e non lo chiamavo perché temevo — temevo di disturbare il suo silenzio.