FACCIAMO DECIDERE L’ELETTORE
La politica italiana apre una lunga campagna elettorale con il retropensiero che le elezioni non serviranno a nulla, e i giochi si faranno dopo in Parlamento. Si considera inevitabile, come un destino, che il voto popolare non consegni nessuna maggioranza e quindi nessun governo, e tocchi alle alchimie di Palazzo inventare qualche formula o riportare il Paese alle urne.
È un atteggiamento irresponsabile, come ha denunciato il 29 luglio scorso il direttore del Corriere Luciano Fontana. Il 2018 sarà un tornante della storia. L’Europa è chiamata a superare definitivamente la crisi economica, governare le migrazioni, fronteggiare il terrorismo islamico, costruire l’unità in un momento di eclissi della leadership americana. A queste sfide epocali l’Italia rinuncia a rispondere. La Francia ha scelto un leader giovane e gli ha dato cinque anni di pieni poteri. La Germania si prepara a rieleggere per un altro quadriennio la sua Cancelliera. La Spagna ha un governo traballante ma cresce a ritmi più che doppi rispetto ai nostri. In Italia ai segni di dinamismo della società produttiva, in particolare a Milano e nel resto del Nord, non corrisponde la consapevolezza dei partiti e dei loro leader. Eppure il Paese è da ricostruire, come dopo la guerra. Settant’anni fa, forze divise sul piano ideologico seppero trovare regole comuni. Oggi non c’è traccia di un analogo senso di responsabilità.
Certo, si intuisce che si sta preparando un accordo per introdurre un premio di maggioranza alla coalizione vincente.
Né Renzi né Berlusconi sono entusiasti, perché non hanno gran voglia di costruire alleanze (per non parlare di Grillo, che alleanze non ne fa); però nel centrosinistra e nel centrodestra molti premono perché i due tradizionali campi vengano in qualche modo ricostruiti. Ma neppure il premio sarebbe sufficiente a dare una maggioranza di governo. Il problema, come hanno scritto Angelo Panebianco il 7 agosto ed Ernesto Galli della Loggia lunedì scorso, è il sistema proporzionale. Che toglie potere agli elettori per consegnarlo alle segreterie. Che fa del presidente del Consiglio un re travicello in balia delle onde. Ma il proporzionale non è stato scelto dal popolo italiano, anzi; quando gli elettori furono chiamati a esprimersi con il referendum del 1993, in 29 milioni — l’82,74% — votarono per abolirlo. La partecipazione fu altissima: oltre il 77%. Nacque allora la riforma elettorale che porta il nome dell’attuale capo dello Stato.
Con i collegi uninominali si votò tre volte. Due volte, nel 1994 e nel 2001, vinse il centrodestra. Avrebbe vinto anche nel 1996, se non avesse voluto una riforma elettorale sbagliata. Probabilmente vincerebbe anche l’anno prossimo. Non è vero che con tre poli neppure il maggioritario designa un vincitore. Nel 2005 Blair ebbe la maggioranza assoluta con il 35%, con i conservatori al 32 e i liberaldemocratici al 22. Anche in Italia nel 2006 si misurarono tre poli: Prodi conquistò la maggioranza sconfiggendo Berlusconi di misura, con la Lega al massimo storico. Il maggioritario con i collegi uninominali, oltre a creare un legame tra elettori ed eletti, incoraggia e rafforza la tendenza che si crea prima del voto, e che a giudicare dagli umori del Paese potrebbe premiare appunto il centrodestra.
Ma il fondatore del centrodestra italiano, Silvio Berlusconi, il maggioritario non lo vuole. Forse perché il centrodestra come l’abbiamo conosciuto non esiste più. Forse perché Berlusconi preferisce governare con Renzi anziché con Salvini, con un riformista di centro anziché con un lepenista. Ma la prospettiva di un accordo farebbe perdere voti sia a Forza Italia, sia al Pd. Mentre il voto amministrativo, dove si eleggono direttamente i sindaci, conferma che agli elettori le coalizioni e il maggioritario non dispiacciono. A sinistra come a destra.
Una legge con una quota di collegi uninominali appare oggi molto difficile. Ma sarebbe utile al Paese, e forse anche conveniente per più di una forza politica. Certo, i collegi uninominali bisogna vincerli. Occorrono candidati presentabili e radicati sul territorio. Molto più comodo scrivere di proprio pugno la lista dei propri eletti, per poi giocarsi la partita al tavolo delle trattative.