Corriere della Sera

«Io, la carezza e quella foto»

L’agente «buono»: mi ha telefonato per dirmelo dopo aver visto la foto con l’immigrata

- Di Maria Egizia Fiaschetti

Alza la visiera del casco, la guarda negli occhi e le stringe il viso tra le mani. Ha 48 anni, N. G., poliziotto del Reparto Mobile di Roma. E quella carezza alla donna africana (sopra) gli è valsa i compliment­i del figlio: «Mi ha detto che era orgoglioso di me».

ROMA Alza la visiera del casco, la guarda negli occhi e le stringe il viso tra le mani. Quando l’immagine del gigante buono che accarezza una donna africana in lacrime dopo gli scontri di piazza Indipenden­za è già

trending topic lui ancora non lo sa: «L’ha vista mio figlio — racconta N. G., 48 anni, da 28 in servizio al reparto Mobile di Roma — e mi ha chiamato per dirmi: “Papà, sono orgoglioso di te”». Da dove nasce quel gesto? «Dopo la prima carica le donne sono tornate nei giardini. Piangevano disperate, temevano di finire in strada e di non riuscire a trovare un’altra sistemazio­ne. Mi sono avvicinato a una di loro e l’ho accarezzat­a per rassicurar­la che le avrebbero trovato un posto dove stare. I miei colleghi, anche se nelle immagini non si vede, hanno fatto lo stesso». Originario di Sulmona, padre di due ragazzi di 13 e 16 anni, negli uffici del Viminale l’agente ricorda quel momento con l’espression­e di chi è abituato a gestire le tensioni: «Con il metodo di addestrame­nto redman lavoriamo al ritmo di 180-190 battiti al minuto per imparare a convivere con l’adrenalina e a inoculare lo stress». Davanti al dolore, però, prevale il senso di umanità: «Spero che quella signora stia bene e abbia un tetto sulla testa. Mi piacerebbe incontrarl­a per sapere che si è rasserenat­a». Ieri sono volati sassi e bombole del gas, ma le saranno capitate giornate anche peggiori: come tiene a bada la paura? «In questo lavoro chi non sente la paura ha seri problemi... L’importante è che non sfoci nel panico perché si rischia di mettere in difficoltà non solo se stessi, ma anche alla squadra». Certe scene possono turbare anche persone allenate come lei: ha mai sentito il bisogno di un supporto psicologic­o? «No. Mi aiuta parlarne con i miei cari. La sera, quando rientro a casa, gli racconto sempre quello che è successo. Con grande serenità». C’è stato un momento nella sua carriera in cui ha temuto di perdere il controllo della situazione? «Il problema sono i grandi numeri: stadio, manifestaz­ioni...». In casi come quello di ieri ci si ritrova di fronte a persone che soffrono: le è mai capitato di sentirsi dalla parte sbagliata? «Per il mestiere che faccio è una domanda che non mi pongo. So di aver fatto la scelta giusta». I celerini sono da sempre bersaglio di insulti, a volte anche feroci: come fa a farseli scivolare addosso? «Faccio finta di non sentirli».

Volevo rassicurar­la che avrebbe trovato un posto dove stare Altri miei colleghi hanno fatto lo stesso

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