GP del Belgio allerta in pista (e fuori)
DAL NOSTRO INVIATO
S«Il Gran Premio del Belgio? Ovvio che sia un evento a rischio: che cosa non lo è oggi in Europa?». Andre Maes è a capo dell’organizzazione di una delle più affascinanti gare della F1, su una pista che buca i saliscendi e le foreste delle Ardenne e che emana un fascino antico. Ma la tradizione deve fare i conti con il nuovo mondo. E con il terrorismo mordi e fuggi. «Il problema principale — riprende Maes — è che è complicato proteggere un tracciato di 7 km, gran parte del quale si snoda nel verde: dobbiamo pattugliare pure i boschi». I fatti di Barcellona («Ma anche il ricordo di quelli di Parigi e Berlino. E come dimenticare gli attacchi del 2016 all’aeroporto e alla metro di Bruxelles?») hanno suggerito un giro di vite in termini di security. E’ qualcosa di discreto ma allo stesso tempo percepibile: le tribune sono battute dalla polizia, che frequenta con cani antiesplosivo il paddock della F1 e quelli delle corse di contorno. Chi arriva al circuito deve affrontare punti di controllo più numerosi, una bella selva di transenne e blocchi di strade assenti nel passato. E’ uno sforzo che ha raddoppiato — da 1 a 2 milioni di euro — quanto era a budget negli anni scorsi. E il dispiegamento di forze è notevole: «Un centinaio di soldati con vari mezzi, 450 poliziotti, 250 steward nelle tribune e 220 agenti di una nostra unità di sicurezza con licenza di perquisire». Non è finita: «Il valore aggiunto lo danno i profiler in borghese, addestrati a scrutare il volto della gente e a capire se un soggetto è pericoloso». Nessuno spiega come funziona, la riservatezza è decisiva tanto quanto la cooperazione: «Abbiamo coinvolto anche i responsabili della security dei team: due volte al giorno si riunisce un gruppo di lavoro di 15-16 persone». Nella speranza che sia solo eccesso di zelo.
Pattuglie «Come proteggere un tracciato di 7 km? Occorre pattugliare pure i boschi»