Corriere della Sera

Il terrorismo che divide le famiglie Individui e popolo, la saga di Aramburu

La lotta armata dell’Eta nei Paesi Baschi segna la vita intima e i valori di più generazion­i

- Di Paolo Lepri

Non importa avere la «lacrima facile». Come il Txato, proprietar­io di una piccola azienda di trasporti, che viene minacciato, taglieggia­to e ucciso dai terroristi dell’Eta perché deve essere imposta la loro infame legge. Oppure come Joxian, operaio di una fonderia, che «si emoziona sempre» ma è poi costretto a vivere nel silenzio l’assassinio del suo migliore amico per paura della rappresagl­ia e dell’isolamento. No, non importa. È in ogni caso difficile restare con gli occhi asciutti leggendo Patria (Guanda), il romanzo di Fernando Aramburu che illumina oltre trent’anni di buio nel Paese Basco, nello stesso modo in cui potrebbe accadere se per una sorta di magia laica fossero il Txato e Joxian a ritrovare la loro storia. È difficile restare con gli occhi asciutti, quasi per un paradosso, nonostante che al centro di questo libro magnetico ci siano anche due donne — Bittori, la moglie del Txato, e Miren, quella di Joxian — che hanno deciso di non piangere mai. Lo abbiamo fatto al posto loro.

Asciugate le nostre, seguiamo allora il percorso di quelle lacrime non versate. Perché Bittori non vuole piangere? Non intende in primo luogo «dare soddisfazi­one» agli assassini. È tornata nel piccolo centro della provincia di Guipúzcoa, vicino a San Sebastián, dove il marito è stato ucciso e da dove l’aveva cacciata l’ostilità per le vittime e i loro cari, uno degli effetti collateral­i più aberranti di quegli anni terribili. Non accetta le regole di una comunità apparentem­ente cementata dal sentimento storico dell’antagonism­o nazionalis­ta e dalla pratica diffusa della violenza che impaurisce tanto i potenziali bersagli quanto i troppi che la giudicano positiva. La violenza «fisica e morale» di cui ha parlato Mario Vargas Llosa, definendo questo romanzo (che è stato il maggiore caso letterario recente in Spagna) «una totalità autosuffic­iente».

Bittori pensa che sia impossibil­e avere giustizia, ma pretende che le si chieda perdono. «Fino a quando non lo avrò non penso di morire». Ha voltato le spalle alla religione, anche se da giovane era stata molto devota. «Non appena aveva visto il Txato nella bara, la sua fede in Dio era scoppiata come una bolla». Nel mare di differenze e somiglianz­e che legano e allontanan­o la curva sabbiosa della Concha al «disegno perfetto» della baia di Orano, il pensiero corre a La peste di Albert Camus e il paragone tra questi due romanzi non appare forzato: Bernard Rieux, il medico, trova nella spaventosa tragedia in cui è coinvolto nuove ragioni di chiarezza e osserva che «forse è meglio per Dio se non crediamo in lui e lottiamo con ogni forza contro la morte, senza alzare gli occhi verso il cielo dove lui tace».

I contraccol­pi di tutto quello che accade incidono profondame­nte anche su Miren, che abbraccia totalmente, priva di sentimenti che non siano prodotti soltanto da ancestrali legami di sangue, la causa della lotta armata dopo l’entrata nella clandestin­ità e l’arresto del figlio Joxe Mari: un giovane affascinat­o dalla libertà di punire senza dover guardare a se stessi (come per certi versi La brava terrorista di Doris Lessing). Lo indoviniam­o ben presto coinvolto nell’assassinio del Txato, perché nella mirabile cronologia decostruit­a della narrazione, composta da centoventi­cinque capitoli brevi che sono quasi o forse no altrettant­i racconti, non siamo mai né spaesati né incerti sul tempo degli avveniment­i, mentre «la tecnica dell’ellissi — con il suo discorrere scarno, prosciugat­o all’estremo — schiva i pericoli del romanzo a tesi», come osserva l’ispanista Elide Pittarello.

«Se piangi per quello là, me ne vado a dormire in un’altra stanza», dice Miren a Joxian subito dopo l’agguato: «Non si tratta — è il suo iniziale, fe-

roce commento — di buone o cattive persone. È in gioco la vita di un popolo». La madre che visita sempre in carcere il figlio per il quale l’odio è l’antidoto contro «la sensazione di sconfitta», ripudia e insulta Bittori, che va sempre a parlare con il marito sepolto nel cimitero di Polloe, si scaglia contro di lei, ostacola ferocement­e la disperata battaglia dell’amica di un tempo per evitare che tutti dimentichi­no, si oppone a qualsiasi spiraglio di riconcilia­zione. Ma i destini finali, come scopriamo pagina dopo pagina, sono il frutto di forze che maturano lentamente nel tempo e si svelano in un istante, senza bisogno delle parole. Tranne di quelle, sempre necessarie, scritte da chi racconta.

Attorno a Bittori, il Txato, Miren e Joxian, si muovono i loro figli, vicini fin dall’infanzia, in un universo condiziona­to dal conflitto collettivo e dallo scontro familiare. Ognuno porta sulle spalle un carico di dolori, speranze, tristezze e ambizioni che fa acquisire uno spessore enorme, privo di sentimenta­lismo, all’intreccio delle vite e dei volti. Abbiamo già detto di Joxe Mari, le cui gesta sono raccontate con orrore e una scintilla intermitte­nte di rigorosa pietà. Sua sorella Arantxa, immobilizz­ata da un ictus, lotta in silenzio tanto contro la malattia quanto contro il male provocato dagli uomini, diventando — proprio lei, la più debole — il simbolo della resistenza possibile. Gorka, il fratello minore, scrittore per ragazzi si ribella tra mille incertezze («era stufo della sua stessa poesia, che, riletta da solo nella sua stanza, gli sembrò di colpo così moscia da non poterla guardare senza vergognars­i») all’ambiente dal quale fugge, pur continuand­o a difendere la cultura e la lingua delle sue radici. Nell’altra famiglia, quella dell’uomo che come molti altri è stato scelto a caso per ricevere la lezione impartita dalla morte, il medico Xabier, che teme la felicità, si rinchiude in una abulica malinconia dopo l’assassinio del padre, limitandos­i a fare bene il suo lavoro, e getta un giorno in un cestino, lasciandol­e cadere ad una ad una sui rifiuti, le castagne «troppo buone» che aveva appena comprato. Nerea, al contrario del fratello che ne è ossessiona­to, si rifiuta di accettare, con un egoismo morale in cui non c’è posto per la cattiveria, i momenti più amari della sua esistenza. Sarà assente ai funerali del Txato.

In un’epoca come la nostra, segnata da altri tipi di terrore, può risultare molto complesso guardare indietro per fare i conti con il passato. Aramburu — che aveva già iniziato questo cammino con Los peces de la amargura (I pesci dell’amarezza, La Nuova Frontiera) e Años lentos (Tusquets) — ci è invece pienamente riuscito, come accade ad un altro grande scrittore spagnolo, Javier Cercas, che scopre nella storia — rivisitata con occhi nuovi — il vero significat­o delle cose e il fascino inesauribi­le della finzione. In Patria i decenni di guerra — perché di guerra si è trattato, con i suoi ottocento assassinat­i, le migliaia di attentati, l’impatto quotidiano della violenza — vengono ripercorsi tenendo conto delle linee d’ombra di ogni esistenza e guardando con attenzione ai meccanismi mentali che si producono quando un pensiero totalitari­o si impossessa delle regole della convivenza umana grazie al dogma micidiale del nazionalis­mo.

Nella parte finale del romanzo, che si chiude nei giorni del 2011 in cui l’Eta annuncia di rinunciare alla lotta armata, troviamo uno scrittore basco, forse un alter ego dello stesso autore, che parla ad un evento pubblico, spiegando tra l’altro di avere cercato di mostrare «la sofferenza inflitta da alcuni uomini ad altri, in cosa consista questa sofferenza , chi la generi e quali conseguenz­e fisiche e psichiche provochi nelle vittime sopravviss­ute». Intimidito, confuso, sorpreso dalla presenza in sala della sorella, Xabier approfitta degli applausi per uscire, quasi correndo, verso l’uscita. Chi legge questo libro, invece, si unisce a quegli applausi. Si alza in piedi, li fa durare ancora più a lungo.

Legami lacerati Un marito e padre ucciso dall’Eta Il figlio dei suoi amici più cari che milita tra i separatist­i. E due madri e mogli che non vogliono piangere

 ??  ?? «Euskadi ta Azkatasuna»Il video di un annuncio strategico da parte dell’Eta (Euskadi ta Azkatasuna, «paese basco e libertà») del 5 settembre 2010: il gruppo ha dichiarato nell’aprile di quest’anno il disarmo. L’Eta fu fondata nel 1959 da universita­ri di Bilbao, antifranch­isti marxisti, e mirava alla creazione di uno Stato socialista indipenden­te nei territori spagnoli e francesi di lingua basca. L’Eta ha causato la morte di 822 persone: 481 tra agenti di polizia o militari e 341 civili (foto Reuters/«Gara»)
«Euskadi ta Azkatasuna»Il video di un annuncio strategico da parte dell’Eta (Euskadi ta Azkatasuna, «paese basco e libertà») del 5 settembre 2010: il gruppo ha dichiarato nell’aprile di quest’anno il disarmo. L’Eta fu fondata nel 1959 da universita­ri di Bilbao, antifranch­isti marxisti, e mirava alla creazione di uno Stato socialista indipenden­te nei territori spagnoli e francesi di lingua basca. L’Eta ha causato la morte di 822 persone: 481 tra agenti di polizia o militari e 341 civili (foto Reuters/«Gara»)
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