I MIEI BOMBOLONI E LA NUOVA RIMINI MENO ROMAGNOLA
Lo scrittore Marco Missiroli è nato nella città romagnola nel 1981: «Sono cresciuto giocando a carte al bar tra i bagni numero 4 e 5 Eravamo semplici, in discoteca si andava per il rock non per lo sballo»
Non starà qui a dirci che si stava meglio quando si stava peggio. «Perché obiettivamente oggi Rimini è più bella. Il sindaco ha fatto un lavoro incredibile per migliorare la vivibilità: è più facile girare in bicicletta, ci sono molti più spazi per giocare, fare sport e cultura. Il Teatro Galli è stato ristrutturato, lo stesso il Cinema Fulgor di Fellini. Ci sono continuamente iniziative in programma. La “Notte Rosa”, così tanto criticata da alcuni, in verità è stata una linfa vitale per la città...». Però c’è un però, tra i ricordi dello scrittore Marco Missiroli, nato a Rimini il 2 febbraio 1981, quando il massimo della vita era la Festa dell’Unità e nessuno neanche sognava una «Molo Street Parade» come quelle degli ultimi anni, con i deejay che suonano sui pescherecci ormeggiati nella banchina davanti a migliaia di giovani che invadono il lungomare. Di qui, appunto, il però: «Adesso la mia città è meno romagnola».
Gli ombrelloni, l’anti-resort
C’era una volta un ragazzino, che viveva nel posto più bello del mondo e d’estate dall’Ina Casa — quartiere popolare dove al barbecue si cucinava la saraghina e gli stereotipi di piadina, dialetto cantilenante e sangiovese non erano un’iperbole, ma uno stile di vita — si trasferiva agli Ombrelloni. «Facevamo così tutti: per tre stagioni l’anno, autunno, inverno e primavera, vivevamo in un quartiere qualunque di Rimini, poi ci trasferivamo sul mare, con un vicinato tutto diverso, che però ogni anno era sempre lo stesso». Gli Ombrelloni come degli appartamenti. «Sentivi i segreti, le confessioni di chi ti stava accanto. Erano l’anti-resort. Se un’estate qualcuno non tornava, ti chiedevi se fosse successo qualcosa. Spesso l’ombrellone lo prendevano due o tre famiglie insieme: in spiaggia si portavano i panini, l’insalata di riso e si ascoltava la Publiphono, la radio che unisce tutti i bagnini, quella che ogni tanto ancora oggi si interrompe per annunciare che si è perso un bambino di 8 anni con il costumino rosso, e poi subito dopo un vicino dice “Madonna l’ho visto!”».
I bagnini (intesi come bagni)
Gli stabilimenti si chiamano ancora «bagnini», come quelli che salvano chi sta annegando. «Sono numerati da 1 a 100. I riminesi si concentrano nei primi 50-60. Io andavo al numero 4, negli anni avevamo conquistato la prima fila, che si ottiene per diritto di anzianità: sono cresciuto con così tanto iodio nei polmoni che ero sempre nervoso. Poi una quindicina di anni fa il 4 è stato buttato giù e convertito nel Turquoise Beach Club, e con la mia famiglia ci siamo spostati al numero 6, ma per me non era più lo stesso». Tra un bagnino e l’altro c’era il bar. «Sono cresciuto al Bar Laura, tra il 4 e il 5. Lì si mangiavano i bomboloni, si giocava a briscola, a tressette, a beach volley o a calcio. Non si leggeva niente e, con un po’ di fortuna, nascevano i primi amori. Ma noi non eravamo fortunati e le tedesche al Carnaby non riuscivamo mai a portarle».
I bagnini intesi come persone, invece, stavano in un cabinotto di tre metri per tre. «È come la borsa di Mary Poppins, ci stanno dentro cinquecento secchielli, due canotti, dieci lettini. Ci infili la testa per prendere la chiave e vedi una cucina pazzesca e altre duecentomila cose. Ho scoperto, dopo, che il bagnino è una sorta di portinaio alla milanese: non è un animatore, ma un nume tutelare della spiaggia». Ma Rimini non è Rimini senza
Il bagnino È come un portinaio milanese, non è un animatore ma un nume tutelare. E il suo gabbiotto di tre metri per tre ricorda la borsa di Mary Poppins, dentro c’è di tutto, secchi, lettini, canotti, cucina
il suo centro storico. «È un cardo che si incrocia con un decumano. La mia preferita è piazza Cavour, dove c’è una pigna in cima alla fontana e si diceva che se la alzavi trovavi un passaggio segreto: io però non ho mai provato, perché le certezze distruggono la fantasia. Sempre lì vicino c’è il Fulgor di Fellini. Nel film La prima notte di quiete, di Valerio Zurlini, il protagonista aspetta la ragazzina su un’auto sportiva proprio in quella piazza». Il centro sta alla spiaggia come la pastella al fritto. «Prima ti impasti bene, con la tua passeggiata al caldo, poi ti butti nell’olio bollente, cioè in acqua».
L’anguria all’Assassino
Oltre al centro, un altro luogo che non si può dissociare dalle estati riminesi è il colle di Covignano, meta obbligata per gustare una fetta di anguria e cercare angoli appartati con nuovi amori.
«Con gli altri si stava alla giagia, un modo per dire “stare insieme”. Ci portavo le ragazze per mangiare l’anguria all’Assassino. Di sotto l’inferno della riviera, e in collina altri meandri danteschi. Da lì, poi, salivamo alla chiesa di Santa Maria delle Grazie...». Se gli nominate le discoteche Cocoricò, Peter Pan o Byblos, un riminese non le collegherà mai a fatti di cronaca nera. «Noi abbiamo un altro sguardo ed è quello delle radici. Non siamo mai entrati in discoteca per sballarci, andavamo al Velvet per ascoltare canzoni rock. Non siamo cresciuti con intellettualismo e romanticismo, eravamo più spicci, semplici. Gli echi della trasgressione arrivavano da lontano, ma non li sentivamo neppure. Noi, semmai, leghiamo la città alla poesia di Tonino Guerra, che ha vissuto nell’entroterra, all’arte nascosta, alla lentezza romagnola».
Se dovesse racchiuderla in un libro, Marco Missiroli sceglierebbe Rimini di Pier Vittorio Tondelli. Se fosse una immagine, sarebbe uno scatto di Marco Pesaresi. Se fosse un film, una pellicola di Federico Fellini. La verità, però, è che in quella spiaggia sterminata non ci va quasi più. «Ho perso l’allenamento al mare, i miei piedi hanno dimenticato la percezione della morbidezza, ormai si sono abituati all’asfalto milanese». Tutto il resto è Amarcord.