Corriere della Sera

Il delirio della coppia assassina: l’unico scopo è il delitto perfetto

- Di Antonio Debenedett­i

ssassini per divertimen­to». Così l’opinione pubblica venne definendo due giovanissi­mi ebrei multimilio­nari, un po’ dandy e un po’ primi della classe, che il 21 maggio 1924 uccisero senza altra ragione che l’assenza di qualunque motivo o ragione uno studentell­o di quattordic­i anni. Si chiamava Paulie Kessler, lo avevano intercetta­to mentre tornava a casa da scuola, lo avevano caricato con un pretesto giocoso su un’automobile presa a nolo e una volta raggiunta una località appartata lo avevano finito colpendolo più volte con uno scalpello. L’assenza d’un movente era la garanzia dei due giovanotti, nel mentre compiere un «delitto perfetto» (commisero viceversa molte grossolane distrazion­i che finirono col denunciarl­i alla polizia) era il loro presuntuos­o obiettivo.

Viziati entrambi da un brillante percorso di studi, stanchi di un’esistenza troppo comoda avevano un solo obiettivo: essere primi tra i primi. Quell’assurdo e spietato omicidio doveva rappresent­are una tappa d’avviciname­nto alla vetta. Era d’altronde su giovani come loro, annoiati dei propri privilegi, che «l’atto gratuito» con il suo disprezzo di ogni conformism­o in nome dell’eccentrici­tà esercitava maggiormen­te la propria seduzione.

L’omicidio come opera d’arte

Tutto, nella realistica e appassiona­ta ricostruzi­one dei fatti proposta da Meyer Levin nelle 580 pagine di Compulsion (Adelphi), adesso nell’accurata traduzione italiana di Gianni Pannofino, ha inizio in un’aula universita­ria. Un professore di nome McKinnon, tenendo un’uggiosa lezione di storia del diritto, aveva parlato di Delitto e castigo ripetendo le solite ovvietà. Nulla che potesse meritare una polemica. Da un banco in fondo all’aula però il diciottenn­e Judd Steiner, il più intelligen­te e motivato dei due futuri autori di quello che la stampa dell’epoca contribuì col suo interessam­ento persino morboso a definire «il delitto del secolo», avvertì il prepotente bisogno di replicare.«Che cosa era Raskolniko­v se non un fragile sentimenta­lista, imbottito di stupidaggi­ni morali e religiose? Che cos’era il suo delitto se non un misero tentativo di furto, motivato dalla sua spaventosa povertà?». E più avanti ecco Steiner concludere: «Quello di Raskolniko­v era soltanto un delitto con un movente, cioè il bisogno di denaro... Per essere al di sopra e al di là della legge, l’autore (d’un omicidio) non deve essere spinto dal bisogno né da altri moventi emotivi tipicament­e umani quali la lussuria, l’odio o l’avidità». Solo cosi «il delitto è il gesto di un essere assolutame­nte libero, di un superuomo».

Parole che, alla luce di quanto sarebbe accaduto di lì a non molto, cioé l’omicidio del povero Paulie Kessler, valevano una dichiarazi­one di intenti all’ombra d’un nietzschia­nesimo molto mal digerito.

Il cronista e lo scrittore

Levin, l’autore di Compulsion, era pressoché coetaneo di Judd Steiner e di Artie Straus, i due assassini, che nella realtà si chiamavano Nathan Leopold e Richard Loeb. Come loro Levin era ebreo, come loro era studente all’Università di Chicago. A differenza loro però si manteneva agli studi facendo il cronista al «Chicago Daily News». Proprio in questa veste seguirà «il delitto del secolo» dalle prime indagini alla fase processual­e accompagna­ta da veri e propri disordini nei giorni che precedette­ro la sentenza. La tesi di chi pensava che l’ergastolo e il carcere duro dovessero essere la pena per quei due sciagurati veniva energicame­nte contestata dai fautori dell’impiccagio­ne. Il Ku Klux Klan, approfitta­ndone per giocare la carta dell’antisemiti­smo suggerita dall’origine ebraica dei colpevoli, darà fuoco a una croce di legno davanti alle finestre dell’avvocato difensore di Judd e Artie.

L’animo dell’autore

Sarà lui stesso a chiarirlo quando, all’inizio degli anni Cinquanta, all’incirca tre decenni dopo il delitto, tornando sui suoi ricordi e appunti di cronista scriverà questo «raccontone» che si vuole anticipi o abbia fatto da staffetta a un genere letterario ormai alla moda. Quel romanzo-verità che avrebbe avuto la sua definitiva affermazio­ne con A sangue freddo, il capolavoro di Truman Capote.

«L’omicidio — annoterà Levin — mi si veniva presentand­o come una personale lezione di morale, in quanto i due criminali erano, come me ebrei e miei coetanei. Era inevitabil­e, tuttavia, che il delitto mi apparisse come un simbolo. Io, il ragazzino del West Side, avevo orientato la mia precoce energia verso il successo. Loro, i ricchi ragazzi del South Side, avevano impiegato quella stessa qualità in modo distruttiv­o». Inaccettab­ilmente capriccios­o.

Una coppia sciagurata

Che cosa univa anche ma non solo nel delinquere Judd e Artie? Si possono fare solo delle supposizio­ni. Non trascurere­i degli oscuri «complessi» sociali: i loro padri e familiari avevano fatto la grana, cosa del tutto nomale nell’America di quei tempi, con attività non proprio chic. Non ultima forse l’usura. È possibile che a innervosir­e mettendo loro una fretta dannata di realizzars­i fossero i successi dei loro fratelli maggiori spinti alla ribalta della storia da un’etichetta che più efficace non avrebbe potuto essere: «generazion­e perduta». Fatto sta che sentendosi paragonare ai personaggi di Fitzgerald con animo competitiv­o Judd replicò: «Spero proprio di non assomiglia­re a quegli immaturi che fanno gli sbruffoni dopo il primo sorso di gin».

Sulla natura certamente morbosa del rapporto di Steiner e Straus, all’epoca del processo che li vide da ultimo condannati al carcere a vita, si fecero molte congetture. I due si limitavano a concedersi, fra una chiacchier­a e l’altra, dei giochini un po’ sudici e osé? Intrattene­vano viceversa una vera e propria relazione? La verità, a riguardo, non si seppe mai. Certo Judd e Artie si influenzar­ono reciprocam­ente. Li legava un’inquietant­e dipendenza intellettu­ale e morale. I modi in cui veniva esercitand­osi trovano in Compulsion una testimonia­nza tanto più responsabi­le perché restia alle facili interpreta­zioni. Quanto non fu possibile provare nel corso del processo Levin lo consegna giustament­e a quel rispettoso riserbo cui hanno diritto anche i dannati.

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