La nuova rappresaglia contro i Rohingya e il silenzio di Suu Kyi
Nulla lega i colori sgargianti di queste donne in fuga all’opacità della guerra da cui scappano in queste ore migliaia di civili Rohingya, la minoranza musulmana oppressa in Birmania (Myanmar), Stato a maggioranza buddhista. Difficile avere notizie certe, perché i giornalisti stranieri e le Ong non sono ammessi nelle aree in cui sono divampati i combattimenti, nel Nord dell’ex Birmania dove il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, 72 anni, da sedici mesi si palleggia il potere con i militari che per decenni l’hanno tenuta prigioniera. Quello stesso esercito, racconta un collaboratore locale dell’agenzia France Press, ha sparato ieri con mitragliatrici e mortai non soltanto contro i guerriglieri dell’Arakan Rohingya Salvation Army, ma anche sui civili in fuga dai villaggi nella regione di Rakhine verso il confine con il Bangladesh. Secondo alcune guardie di frontiera, donne e bambini che avevano cercato rifugio oltre una collina sono stati centrati dai proiettili. L’offensiva e i rastrellamenti arrivano dopo il blitz che giovedì i ribelli hanno sferrato su almeno 30 avamposti militari uccidendo 12 soldati. The Lady, come viene chiamata Suu Kyi, dalla sua posizione di «super consigliera» (e leader di fatto in coabitazione con i generali) ha condannato l’attacco «che mette a rischio il processo di pace». Non una parola, anche questa volta, per frenare la rappresaglia sui civili che è già cominciata. Come nell’ottobre scorso, quando l’agguato mortale a nove poliziotti innescò la repressione sui villaggi Rohingya (un milione di abitanti che il governo considera immigrati illegali): mille case distrutte, uccisioni, stupri e l’esodo di 87 mila persone. La Signora con il fiore nei capelli ha bollato queste notizie come false (la Bbc l’ha paragonata a Trump). Il suo nome non è più sgargiante come gli abiti di queste donne in fuga. È sbiadito.