La nuova stagione di Finarte «In due anni torniamo in Borsa»
Nel club di soci della casa d’aste i nomi di Bifulco, Mutti, Piacentini
Deve avere un sapore strano per una casa d’aste finire sotto il martelletto del banditore. Perché è così, a conti fatti, che si è conclusa nel 2011 la prima vita di Finarte, con i colpi del liquidatore che sancivano, lotto per lotto, il fallimento della casa d’aste fondata nel 1959 dal banchiere milanese Gian Marco Manusardi. «Prima vita» perché ora, per Finarte, sembra cominciata una nuova fase o, per dirla come il neo presidente Rosario Bifulco (amministratore delegato di Mittel), una «ri-startup di Finarte», la «succursale prestigiosa dei salotti buoni della Milano radical chic» (com’era stata definita). Punto di riferimento per il mercato dell’arte italiano, i suoi anni d’oro sono stati quelli tra il 1986 e il 1996 quando alla sua guida c’era il finanziere Francesco Micheli, anni in cui la casa d’aste ha macinato utili, arrivando nel 1990, a Piazza Affari con un fatturato da 150 miliardi di lire. Con l’inizio degli anni 2000 comincia il lento declino. Nel 2004 entra nella lista dei «sorvegliati speciali della Consob», nel 2008 cessano le contrattazioni a Piazza Affari, fino al delisting del 2010. Parallelamente il bilancio comincia a risentire di una gestione non proprio ottimale fino al 2010, chiuso con una perdita di 4 milioni raddoppiata l’anno successivo e al 2011, anno che sancì la liquidazione coatta della società. Dietro questi eventi, la figura non proprio limpida di Giorgio Corbelli l’imprenditore che all’epoca controllava Finarte attraverso la lussemburghese Gioco Sa, finito agli arresti nel 2002. Nel 2014 un gruppo di investitori, per una passione comune, decise di rilevarne il marchio che conservava quell’allure di rispettabilità nostalgica della «Milano da bere», per qualche centinaio di migliaia di euro. Tra i nomi, Diego
Piacentini, all’epoca senior vice president international di Amazon, ora commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale, Rolando Polli, 28 anni in Mc Kinsey, Giancarlo Meschi, una carriera in Eni, Fiat e Apple Italia, presidente di Finarte prima della nomina lo scorso mese dello stesso Rosario Bifulco, Attilio
Meoli, Marco Faieta e Simona Valsecchi. Gli ultimi tre sono usciti dall’investimento per lasciar spazio a Rosario Bifulco, entrato nel luglio del 2015, grazie a un aumento di capitale approvato dall’assemblea dei soci di Finarte, tramite la sua holding Bootes Srl, Giampaolo Cagnin (attraverso Synergetic Srl), fondatore di Campus, società
che si occupa di tecnologie alimentari, e Giovanni Sarti, esperto di arte antica. A marzo dello stesso anno era stato il turno di Capital srl, la società guidata da Mauro Del Rio, fondatore e presidente di Buongiorno Spa, quotata in Borsa. A luglio si è unito anche Francesco Mutti, amministratore delegato dell’omonima società. «Un club deal — commenta Bifulco — con nove soci alla pari, con quote che variano dall’8% al 15%». Il progetto ora è quello di rilanciare il marchio ritagliandosi la propria fetta in un mercato che vale oltre 45 miliardi di dollari nel mondo, seguendo il modello della casa d’aste viennese Dorotheum, nata con una presenza locale, diventata un riferimento internazionale. «Abbiamo cominciato una strategia di crescita sia per linee interne — spiega Bifulco —, aumentando i settori di cui ci occupiamo (oggi siamo concentrati su arte contemporanea e fotografia), sia per linee esterne», con l’acquisizione, finalizzata a luglio, della casa d’aste romana Minerva. Un’operazione che permetterà alla società milanese di aggiungere al proprio portafoglio i settori dei gioielli e dei libri antichi. «In autunno apriremo anche quello delle auto, con un progetto in collaborazione con la Mille Miglia». L’obiettivo è raggiungere a fine 2017, 10 milioni di venduto, grazie anche ai 6 milioni che Minerva si porta in dote. «Per il 2018 vogliamo realizzare il 30-50% in più anche grazie all’aumento del numero di aste che condurremo». Con un’attenzione particolare all’online, un settore con un potenziale enorme nel mercato dell’arte. «Attualmente rappresenta il 10-20% del nostro business e se si aggiunge il canale telefonico arriviamo circa al 40-50% delle transazioni». Il progetto di rilancio dunque è ambizioso e potrebbe passare (il condizionale per il momento è d’obbligo) per una quotazione in Borsa. Di nuovo. Questa volta però sull’Aim, ma «non prima di aver consolidato il nostro business. L’obiettivo non è lontano, in un paio di anni potremmo tornare a Piazza Affari».
I settori trattati dalla società vanno dall’arte moderna alla fotografia e, a breve, anche gioielli, libri antichi e auto d’epoca