La Vegetariana va alla guerra (civile)
Han Kang: narro la Tienanmen coreana perché l’uomo è violento e compassionevole insieme
«Sembra che la violenza sia parte integrante del nostro mondo. Non solo una prerogativa della Corea. La violenza è sopra e sotto la superficie, ovunque». Han Kang parla a voce bassissima, come se chiedesse all’interlocutore che l’ascolto sia anche sforzo fisico. Intorno, le case tranquille, le strade alberate, i caffè un po’ leziosi della Corea arrivata a un inquieto benessere. Più su, oltre il 38° parallelo, incombono le minacce di Kim Jong-un, che si avvitano a quelle di Donald Trump. Parole di violenza.
Di violenza è fatto anche Atti umani, il romanzo di Han Kang che uscirà il 14 settembre per Adelphi, dedicato al massacro di Gwangju (18-27 maggio 1980). Allora la giunta militare di destra non ebbe pietà di civili e studenti, il dittatore Chun Doohwan non tollerava le richieste di libertà. Una Tienanmen coreana, trauma che il successo economico e la vivace democrazia nata alla fine degli anni Ottanta non hanno guarito: «In Atti umani — spiega — Gwangju diventa un nome universale per un tempo e uno spazio in cui la violenza e la dignità dell’uomo coesistono ferocemente. Gwangju fu una strage ma anche una rivolta. La storia del XX secolo lascia ferite profonde e domande sulla violenza e la dignità dell’uomo nel mondo».
Violenza nel libro. E minacce contrapposte tra il nordcoreano Kim e Trump...
«Per la società coreana la guerra non è ancora finita. C’è una frontiera che non possiamo attraversare. Appartengo alla generazione postbellica, non sento la Corea del Nord come qualcosa di molto reale. Non ci sono stata. Ma esiste questa tensione, nel subconscio e nell’inconscio. Si fanno battute su una guerra possibile: “Se scoppia, che cosa facciamo?”, cose così».
E lei ha paura?
«Qualche volta».
Dopo «La vegetariana», da dove nasce «Atti umani», libro corale, su più piani temporali, dove la storia è protagonista?
«Ho scritto per ragioni intime, mie. Fin da bambina ho vissuto un conflitto dentro di me. Mi incuriosivano la natura umana, la sua complessità. Gli uomini possono allestire Auschwitz o sacrificare la propria vita per salvare un bambino da un treno. Mi sono sempre arrovellata su come abbracciare l’umanità e le sue contraddizioni. La mia “vegetariana”, ad esempio: non vuole più essere umana perché rifiuta la violenza che è propria dell’uomo».
È così anche per lei?
«Io stessa vivo la difficoltà di abbracciare pienamente l’essere umano, la vita. E nel corso della mia opera sono andata sempre più a fondo nel confrontarmi con questa realtà. La prima esperienza che ho avuto con questa questione è stata proprio Gwangju: a un’estrema violenza rispondeva la lotta di chi alla violenza si opponeva. E ho cercato di risolvere il nodo».
Grazie alla memoria, dunque...
«Ma non ho affrontato la materia di Atti umani come se dovessi preservare la memoria di qualcosa per chissà chi. Piuttosto ho sentito un bisogno nato da un fatto del 2009 molto simile a quello che accadeva in Corea durante i regimi di destra del passato. Un gruppo di persone che cercava di resistere a uno sgombero ha inscenato una protesta sul tetto. Le autorità hanno reagito con la forza, con troppa forza, e sono morti in cinque. Come se la storia si ripetesse. Una motivazione interiore e una esteriore si sono fuse».
Sono ancora vivi i fatti del 1980?
«Sì. Era stato occultato tutto fino al 1993, quando cominciarono a essere diffuse informazioni. Poi, nel 1997, alle vittime sono stati tributati gli onori dovuti».
Quanti furono i morti, sui 200 come dicevano i militari o persino 2 mila?
«Il problema sono ancora i molti dispersi. Credo che la cifra stia da qualche parte nel mezzo».
Che cosa sanno i giovani di quella stagione di lotte?
«Qualcuno sa perché sono stati i genitori a raccontarglielo ma i conservatori hanno tentato in tutti i modi di minimizzare. Si è cercato di fare in modo che non si potesse cercare la verità e sono stati approvati testi scolastici che andavano in questa direzione. Una mossa controproducente perché ha suscitato ancora più attenzione».
«Atti umani» è un libro politico?
«Non voglio distinguere il politico dal non politico. Atti umani sembra politico ma è personale così come La vegetariana sembra tutto interiore e personale e invece è anche politico. Nessuna differenza».
Nelle parti del libro dedicate a una delle vittime, un ragazzo, ha scelto la narrazione in seconda persona. Perché?
«È una soluzione rara nella narrativa coreana. La seconda persona è come avere un individuo di fronte a me, ricordato ed evocato da me. È anche per dire: sei qui ma non ci sei, non ci sei ma ti evoco, tu dovresti essere qui. Siamo qui per richiamarti alla vita. Ti chiamo e mi confronto con te. È uno scrivere e un leggere al tempo stesso».
Ha lavorato su fonti documentarie?
«Ho consultato montagne di materiale. Se avessi scritto negli anni Ottanta avrei avuto difficoltà ma adesso ci sono un sacco di ricercatori e di accademici che hanno fatto un gran lavoro. Su un volume di testimonianze sono stata un mese, leggendo nove ore al giorno».
Come ne «La vegetariana», in «Atti umani» sembra di riconoscere la cultura profonda del suo Paese: in particolare il confucianesimo e lo sciamanesimo.
«La cultura coreana è ibrida, ci sono cristianesimo, buddhismo, confucianesimo, capitalismo, liberalismo, ma non credo che ci sia lo sciamanesimo tra le mie fonti di ispirazione. Piuttosto intorno ai miei vent’anni ero molto interessata al buddhismo».
Eppure in «Atti umani» i vivi e gli spiriti comunicano sciamanicamente.
«È la mia immaginazione... Non pensavo tanto all’anima, che ha a che fare con un contesto religioso, ma agli spiriti che noi chiamiamo hon che si separano dai corpi. Dopo la morte non c’è salvezza».
Nel romanzo non ci nega cadaveri in decomposizione, torture, stenti. Ancora una volta il corpo è centrale.
«Non me ne sono resa conto. Ero concentrata sui dettagli. Voglio sentire e far sentire quando scrivo. Voglio mostrare, far sentir i suoni».
E come ne «La vegetariana», il dolore.
«Un aspetto nobile dell’essere umano è la capacita di sentire il dolore degli altri. Sentiamo dolore di fronte alla violenza, all’ingiustizia. Sentire il dolore significa credere nell’umanità».
Lei descrive e racconta una comunità che si rivela forte e fragile insieme.
«Gli uomini sono fragili, vulnerabili. A Gwangju ci sono state persone così coraggiose e piene di dignità da affrontare soldati che sparavano, ma hanno perso. Il senso della comunità viene distrutto dalla violenza. Le persone possono essere spezzate come vetro, ecco perché bisogna averne cura. L’anno scorso ho assistito alle proteste contro la presidente Park Geun-hye (concluse con l’impeachment, ndr): c’erano le candele, uno strumento non violento. Mi sono detta: allora è possibile fare qualcosa senza violenza, affrontare la nostra stessa vulnerabilità. E possiamo negare la violenza».
Quanto c’e di vero in «Atti umani»?
«L’epilogo è all’80% vero ma vorrei che il lettore lo sentisse vero tutto. Ma è tutto, tutto vero perché è parte di me».
Anche suo padre e uno dei suoi fratelli sono scrittori...
«Sono stata fortunata. Eravamo molto poveri, in casa quasi non avevamo mobili ma eravamo pieni di libri e sentivo che i libri mi proteggevano».