Paolo Corradini
Direttore Dipartimento di oncologia e oncoematologia, Università di Milano alle domande sui tumori del sangue all’indirizzo
http://forum. corriere.it/ sportello_ cancro_ ematologia
l trapianto di midollo osseo, noto anche come trapianto di cellule staminali ematopoietiche, è una procedura molto complessa mediante la quale si sostituisce un midollo osseo (il tessuto che “produce le cellule del sangue) danneggiato a causa di un linfoma, una leucemia o altre malattie, con un altro sano, proveniente da un donatore in buona salute (trapianto allogenico). Sebbene sia una terapia potenzialmente curativa, comporta alcuni rischi. La complicanza più temibile e frequente è la malattia del trapianto contro l’ospite o Gvhd (Graft versus host disease), che nella forma severa può essere fatale in circa il 40 per cento dei casi. Esistono però strategie sia per prevenirla sia per curarla. Inoltre sono in fase di sviluppo farmaci molto promettenti anche per i casi più difficili.
In che cosa consiste la malattia del trapianto contro l’ospite?
«Questa condizione si verifica nel momento in cui il sistema immunitario del donatore (che “arriva” con il nuovo midollo osseo, ndr) attacca i tessuti del ricevente», spiega il professor Paolo Corradini, direttore del Dipartimento di oncologia e oncoematologia dell’Università di Milano e direttore del Dipartimento di ematologia e oncoematologia pediatrica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Non va confusa quindi con il rigetto del trapianto, oggi molto raro, in cui è il sistema immunitario del ricevente ad aggredire quello del donatore. Lo sviluppo e la gravità della Gvhd dipendono da numerosi fattori tra cui l’età del ricevente, la differenza di sesso tra ricevente e donatore, il loro grado di compatibilità genetica (geni del sistema HLA) e il tipo di terapia preventiva attuata per evitarla. Non solo, diversi studi hanno evidenziato che gioca un ruolo importante anche la tossicità del regime di condizionamento, cioè il trattamento chemioterapico o radioterapico a cui viene sottoposto il malato prima del trapianto. In particolare si è visto che regimi a ridotta intensità si associano a un minor rischio di Gvhd acuta rispetto ad approcci più “aggressivi”. La Gvhd si verifica quando il nuovo sistema immunitario è troppo “brillante”, complice il microambiente ricco di sostanze infiammatorie e il danno ai tessuti conseguenza del regime di condizionamento fatto prima del trapianto».
Che cosa succede «in pratica»?
«Accade che i linfociti T (un tipo di globuli bianchi coinvolti nei meccanismi di difesa) del nuovo sistema immunitario trapiantato sono troppo attivati e così, oltre ad aggredire il tumore, attaccano anche i tessuti dell’ospite, soprattutto a livello di cute, intestino e fegato»
Che cosa si può fare per evitarla?
«La prevenzione della malattia del trapianto verso l’ospite può essere effettuata con l’utilizzo di farmaci immunosoppressori, che in genere vengono assunti per circa sei mesi dopo il trapianto. Nonostante questa profilassi, circa il 30-50 per cento dei pazienti sviluppa la Gvhd acuta. La terapia primaria di questa grave complicanza viene condotta con cortisonici, considerati ancora oggi i farmaci di prima scelta. Nel caso di fallimento di questo approccio si possono considerare altre terapie di salvataggio con farmaci immunosoppressori, fotoaferesi e anticorpi anticitochine, purtroppo non sempre efficaci. Per questi gravi quadri che non rispondono alla terapia cortisonica nuove speranze arrivano da farmaci in via di sviluppo, tra cui il ruxolitinib, che sembrerebbe in grado di promuovere una risposta nel 70 per cento dei casi».