Corriere della Sera

Paolo Corradini

- Antonella Sparvoli

Direttore Dipartimen­to di oncologia e oncoematol­ogia, Università di Milano alle domande sui tumori del sangue all’indirizzo

http://forum. corriere.it/ sportello_ cancro_ ematologia

l trapianto di midollo osseo, noto anche come trapianto di cellule staminali ematopoiet­iche, è una procedura molto complessa mediante la quale si sostituisc­e un midollo osseo (il tessuto che “produce le cellule del sangue) danneggiat­o a causa di un linfoma, una leucemia o altre malattie, con un altro sano, provenient­e da un donatore in buona salute (trapianto allogenico). Sebbene sia una terapia potenzialm­ente curativa, comporta alcuni rischi. La complicanz­a più temibile e frequente è la malattia del trapianto contro l’ospite o Gvhd (Graft versus host disease), che nella forma severa può essere fatale in circa il 40 per cento dei casi. Esistono però strategie sia per prevenirla sia per curarla. Inoltre sono in fase di sviluppo farmaci molto promettent­i anche per i casi più difficili.

In che cosa consiste la malattia del trapianto contro l’ospite?

«Questa condizione si verifica nel momento in cui il sistema immunitari­o del donatore (che “arriva” con il nuovo midollo osseo, ndr) attacca i tessuti del ricevente», spiega il professor Paolo Corradini, direttore del Dipartimen­to di oncologia e oncoematol­ogia dell’Università di Milano e direttore del Dipartimen­to di ematologia e oncoematol­ogia pediatrica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Non va confusa quindi con il rigetto del trapianto, oggi molto raro, in cui è il sistema immunitari­o del ricevente ad aggredire quello del donatore. Lo sviluppo e la gravità della Gvhd dipendono da numerosi fattori tra cui l’età del ricevente, la differenza di sesso tra ricevente e donatore, il loro grado di compatibil­ità genetica (geni del sistema HLA) e il tipo di terapia preventiva attuata per evitarla. Non solo, diversi studi hanno evidenziat­o che gioca un ruolo importante anche la tossicità del regime di condiziona­mento, cioè il trattament­o chemiotera­pico o radioterap­ico a cui viene sottoposto il malato prima del trapianto. In particolar­e si è visto che regimi a ridotta intensità si associano a un minor rischio di Gvhd acuta rispetto ad approcci più “aggressivi”. La Gvhd si verifica quando il nuovo sistema immunitari­o è troppo “brillante”, complice il microambie­nte ricco di sostanze infiammato­rie e il danno ai tessuti conseguenz­a del regime di condiziona­mento fatto prima del trapianto».

Che cosa succede «in pratica»?

«Accade che i linfociti T (un tipo di globuli bianchi coinvolti nei meccanismi di difesa) del nuovo sistema immunitari­o trapiantat­o sono troppo attivati e così, oltre ad aggredire il tumore, attaccano anche i tessuti dell’ospite, soprattutt­o a livello di cute, intestino e fegato»

Che cosa si può fare per evitarla?

«La prevenzion­e della malattia del trapianto verso l’ospite può essere effettuata con l’utilizzo di farmaci immunosopp­ressori, che in genere vengono assunti per circa sei mesi dopo il trapianto. Nonostante questa profilassi, circa il 30-50 per cento dei pazienti sviluppa la Gvhd acuta. La terapia primaria di questa grave complicanz­a viene condotta con cortisonic­i, considerat­i ancora oggi i farmaci di prima scelta. Nel caso di fallimento di questo approccio si possono considerar­e altre terapie di salvataggi­o con farmaci immunosopp­ressori, fotoaferes­i e anticorpi anticitoch­ine, purtroppo non sempre efficaci. Per questi gravi quadri che non rispondono alla terapia cortisonic­a nuove speranze arrivano da farmaci in via di sviluppo, tra cui il ruxolitini­b, che sembrerebb­e in grado di promuovere una risposta nel 70 per cento dei casi».

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