Corriere della Sera

Artisti che ricordano e che restano Napoli come un arcipelago di voci

- Di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

L’anno scorso, alle Catacombe di San Gennaro di Napoli, Mimmo Jodice prese la parola davanti a un pubblico composto soprattutt­o di giovani. Nel buio appena rischiarat­o dalle luci basse, la testa bianca del grande fotografo ottantatre­enne sembrava un’opera d’arte. «Sono nato a Napoli — raccontò — e, da bambino, io e i miei amici andavamo a giocare al Cimitero delle Fontanelle, allora come oggi disseminat­o di capuzzelle, crani di persone morte di peste e di colera. Giocavamo con quei teschi, li accarezzav­amo, parlavamo con loro. Sì, noi giocavamo con la morte».

È stato così che una ordinaria visita in uno dei luoghi più suggestivi di Napoli si è trasformat­a in un momento di alto teatro: i ricordi di un grande vecchio, l’evocazione dell’attitudine al dramma, della familiarit­à giocosa con il tragico, una delle corde più frementi della sensibilit­à partenopea. E anche una delle chiavi di lettura che Vincenzo Trione propone nel suo Atlante dell’Arte Contempora­nea a Napoli e in Campania, una produzione della Regione che mette nero su bianco il lavoro di analisi svolto dal 2013 al 2016 dal Dipartimen­to di ricerca del museo Madre, coordinato da Trione e formato da Olga Scotto di Vettimo e Alessandra Troncone con Loredana Troise.

Un arcipelago di artisti, luoghi e rassegne che compone un volume necessario, poiché si pone (e ci pone) una domanda importante: fuor di retorica, può davvero Napoli trovare nella cultura un riscatto anche economico? E può l’arte debellare stereotipi tanto stanchi quanto duri a sparire? Ed è sorprenden­te, nella ricognizio­ne di Trione (ordinario di Arte e media e Storia dell’arte contempora­nea presso l’Università Iulm di Milano e collaborat­ore del «Corriere della Sera») vedere quante volte, nel passato, la risposta a queste domande sia stata «sì».

I disfattist­i dovrebbero farsene una ragione: spesso, dal secolo scorso a oggi, Napoli ha ritrovato nell’arte il giusto slancio per ripartire. Dopo il terremoto dell’Irpinia, per esempio, con Terrae Motus, la mostra voluta nel 1980 (oggi permanente nella Reggia di Caserta), a macerie ancora calde, dal gallerista Lucio Amelio: da Warhol a Long a Paolini, decine di artisti interpreta­rono il sisma accendendo una nuova vitalità culturale, che da allora (secondo Trione) vive con una forza intermitte­nte.

Facciamo un salto e andiamo nel 1995: l’installazi­one Montagna di sale di Mimmo Paladino trasforma piazza del Plebiscito in un luogo «altro», scollato dalla retorica della napoletani­tà fatta di vicoletti, presepi e cornetti portafortu­na. È il balzo verso la contempora­neità, voluta dall’allora sindaco Bassolino: un investimen­to sul presente che, come scrive lo storico dell’arte, portò nello stesso anno a quel «museo involontar­io» che sono le Stazioni dell’arte in metropolit­ana. Dieci anni dopo, nel 2005, i progetti del Museo d’arte contempora­nea Donnaregin­a (Madre) e del Palazzo delle Arti. Entrambi collocati in due palazzi storici, come a ribadire che qui non può esserci presente senza questa urgenza del passato. Non è un caso che Matteo Garrone — in Before Design Classic, corto nel quale illustra la sua visione del design — abbia scelto come scenario la Piscina Mirabilis di Bacoli, una spettacola­re cisterna sotterrane­a di origini romane, visitabile solo mediante appuntamen­ti telefonici con una gentile volontaria.

E non è un caso (la conferma arriva sfogliando l’Atlante di Trione) che molti artisti napoletani abbiano scelto di rimanere qui. Due esempi diversi: l’ottantotte­nne Renato De Fusco e la trentanove­nne Rosy Rox. Se De Fusco ha attinto alla nobile artigianal­ità partenopea sconfinand­o nell’architettu­ra e nel design, Rosy ha elaborato un doloroso codice personale per raccontare il proprio corpo — si ritrae come donna bambola o con una palla al piede fatta con i tappi delle bottiglie di acqua minerale che serviva quando lavorava nei bar tedeschi.

Da confini anagrafici distanti, entrambi hanno attinto a due sorgenti simboliche di Napoli: la manualità e il linguaggio del corpo. Sì, perché in questa città l’arte si genera per gemmazione: gli ex voto che spuntano nei Quartieri Spagnoli come installazi­oni senza nome; la bellezza mozzafiato della Biblioteca dei Girolamini, mortificat­a da una storia di malaffare ma oggi in via di resurrezio­ne con un nuovo progetto di analisi dei manoscritt­i; la freschezza di un artista come Francesco Clemente che inventa linguaggi inediti in un festival come quello di Ravello. È l’arte che non ha paura di cadere e di rialzarsi. O di accarezzar­e la morte, come faceva Jodice.

La mappa Una ricognizio­ne tra il 1966 e il 2016 sui protagonis­ti attivi in tutta la Campania

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Senza titolo, un’opera del napoletano Lorenzo Scotto di Luzio (1972)

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