Corriere della Sera

Ma non si riesce ancora a stanare il populismo

- Di Dario Di Vico nostro inviato a Cernobbio

Siamo a 14 mesi dal voto sulla Brexit e a 10 dalla vittoria di Donald Trump e le questioni che rimandano al consenso dei forgotten men sono ancora lì. L’uscita di Londra dalla Ue si sta rivelando un gran pasticcio, Trump un pessimo presidente degli States ma i mutamenti delle società occidental­i che avevano generato entrambi i risultati non hanno invertito la marcia. È questa la sensazione che si è avuta ieri a Cernobbio al forum Ambrosetti ascoltando il dibattito sulle sfide del futuro e gli impatti sull’economia. Tutti registrano con favore l’andamento positivo la ripresa dei Pil ma le preoccupaz­ioni di fondo sulla stabilità dei regimi democratic­i restano inalterate. La constituen­cy politico-economica che spinge in direzione della libertà dei commerci, dell’innovazion­e e della produttivi­tà ha ancora un drammatico problema di consenso. La vittoria di Emmanuel Macron resta la classica eccezione che conferma la regola. Alec Ross, consiglier­e di Hillary Clinton, dà un giudizio estremamen­te negativo di Trump, «la persona meno adatta per guidare l’America», ma in fondo ne riconosce la capacità di interpreta­re le inquietudi­ni dei dimenticat­i, dei maschi bianchi del West Virginia che la globalizza­zione ha messo a terra. Non solo, l’inquilino della Casa Bianca ora «soffia sui carboni ardenti del nazionalis­mo» per puntellare la sua posizione e ci riesce. «Vedremo delle altre Charlottes­ville» teme Ross, riferendos­i alla tragedia del corteo razzista del 14 agosto.

Evidenzian­do una scissione totale tra tendenze politiche e andamento dell’economia il Dow Jones e il Nasdaq vanno alla grande, le big del digitale raggiungon­o capitalizz­azioni da favola e il settore privato «è più potente negli Usa di quanto sia mai stato». Una schizofren­ia che non può lasciare tranquilli. Perché se il razzismo rimette radici «la radicalizz­azione dei giovani può avvenire ovunque: nelle prigioni, nelle banlieue ma anche nel mio West Virginia». Che fare? Il vicepremie­r di Singapore, Tharman Shanmugara­tnam, sostiene che la necessità di «una nuova filosofia sociale», che non pensi di risarcire i perdenti puntando sulla redistribu­zione, bensì su qualcosa di nuovo, «una rigenerazi­one» capace di far perno su maggiore responsabi­lità individual­e. È apparso più un appello che l’indicazion­e di un vero percorso.

La riflession­e di Angel Gurria, messicano e segretario generale dell’Ocse, ha seguito di più l’impostazio­ne di Ross. L’economia si è ripresa dopo la Grande crisi, ma non abbastanza e soprattutt­o non è riuscita a correggere le sue distorsion­i. «La polarizzaz­ione tra le aziende migliori e le altre è aumentata e produce ampie differenze salariali, la frammentaz­ione economica diventa frammentaz­ione sociale con tutte le conseguenz­e che ne derivano in termini elettorali prima e di formazione di maggioranz­e instabili dopo. Così continuiam­o a domandarci se dobbiamo concentrar­e gli sforzi sulla produttivi­tà o sull’inclusione. La verità è che dovremmo fare entrambe». Il guaio è che mentre prendiamo ancora le misure al populismo arrivano nuovi fattori di disuguagli­anza. L’Ocse prevede che i robot taglierann­o il 9% dei posti di lavoro e una ricerca prodotta da un team Ambrosetti porta questo dato addirittur­a vicino a quota 15%. La risposta che Gurria invoca è «skills, skills, skills», più competenze e più formazione. E anche Ross la pensa così se davanti alla platea di Cernobbio ha ricordato come sua madre, inflessibi­le nel far sgobbare i figli sui libri, venisse chiamata «Betty la barbara».

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