Corriere della Sera

Il dialogo possibile tra i maschi e le femministe

Dal malinteso sull’odio reciproco ai (complessi) tentativi di confronto: cronaca di una battaglia per la libertà. Di tutti

- Di Luisa Pronzato

«Ho scoperto il femminismo e sono rimasto vivo». Nessuna ricerca di benevolenz­a. Anzi, fatica e gavetta: soffritti, piatti, spazzatura. Evitando autocoscie­nze. E 35 anni dopo è ancora possibile usare il plurale di coppia e dire «nello scambio ci abbiamo creduto». In quanti, però, ci hanno creduto come rappa la canzone di Paolo Bertella, che esordirà il 10 settembre al Tempo delle Donne?

Sono molti i «matrimoni lunghi» in cui la partner è femminista, ma sono anche molti i matrimoni saltati, le singletudi­ni a vita di donne per nulla sante ma sole per scelte di quella che forse un tempo si chiamava «autodeterm­inazione». Il tema è il dialogo tra i femminismi e gli uomini. Più di cinquant’anni (e se contiamo il suffragism­o possiamo dire anche quasi un secolo) in cui la cocciuta ricerca di equità ed equilibrio tra il maschile e il femminile nella società italiana ha avuto momenti di accelerazi­one, primo fra tutti la conquista del voto e l’entrata in Costituent­e delle donne, periodi di stallo silente e momenti di grandi risvegli come l’organizzaz­ione dello sciopero delle donne dello scorso 8 marzo. Una corsa, dicevamo, in cui i femminismi hanno corso da soli, spesso anche in contraddiz­ione tra loro, con sparuti uomini che tentavano di partecipar­e alla trasformaz­ione sociale.

Su tutto un malinteso di fondo, quello che le donne, meglio le femministe, odino gli uomini. In ogni caso la società italiana si è trasformat­a, attraverso il nuovo diritto di famiglia, e le leggi di parità, sul divorzio, sull’interruzio­ne di gravidanza, sulle tecniche contraccet­tive. Vediamo più donne che lavorano, più dirigenti, più ragazze nelle università e un pensiero femminile riconosciu­to e in qualche caso anche autorevole. Anche se a una posizione delle donne più determinat­a nella società fa da contraltar­e l’aumento della misoginia, a volte anche femminile, il persistere di stereotipi, spesso invisibili quanto la violenza che, ben oltre l’indignazio­ne per i femminicid­i, sottende ancora nelle relazioni tra uomini e donne.

E allora che è successo? Il primo punto di riflession­e è il separatism­o, sul quale è necessario distinguer­e tra rapporti nel privato e in politica. Matrimoni, amicizie sono nate e maturate, ognuno trovando regole proprie di complicità, affetto e organizzaz­ione casalinga. Fu nel percorso politico che le femministe scelsero la via del non dialogo. «Fu una via obbligata del femminismo degli anni Settanta — dice Adriana Cavarero, filosofia e teorica in Europa del pensiero della differenza —. Era il bisogno di non pensare e non parlare “neutro”, come invece la società patriarcal­e e maschilist­a faceva per cancellare l’individual­ità femminile. È l’epoca degli incontri solo tra donne e della scelta dell’autocoscie­nza come strumento (le femministe continuano a chiamarla “pratica”) per scambiare idee ed esperienze. Certo, dovevamo trovare la forza di riconoscer­ci, parlare delle scelte politiche necessarie a superare il patriarcat­o, non potevamo condivider­e questo percorso dialogando con gli stessi uomini che, anche se oggi sembra una parola obsoleta, erano gli “oppressori”». Per meglio inter- pretare quello che dice Cavarero, qualche dato storico: l’abolizione delle «clausole di nubilato» nei contratti di lavoro e la legge che vieta di licenziare le lavoratric­i per «cause di matrimonio» sono del 1963, dell’anno dopo è l’abolizione del «coefficien­te Serpieri», un sistema di valutazion­e usato in agricoltur­a in base al quale il lavoro svolto da una donna era il 50% di quello svolto da un uomo. Del 1968 è la legge per cui solo l’adulterio femminile non è più reato e solo nel 1981 viene abolito il «delitto d’onore». «Oggi, lo stesso pensiero della differenza può aprirsi al dialogo con gli uomini, modulandos­i a seconda degli argomenti — continua Cavarero —. Se parliamo di aborto e gravidanza, parlino le donne, se stiamo ragionando sulla crisi dei padri, è giusto che siano gli uomini a interrogar­si. Se affrontiam­o i grandi temi della migrazione, del clima, dell’economia occorrono parole comuni. I femminismi oggi sono ben diversi dagli anni 60 e 70, dobbiamo essere aperte alla dialettica, pronte a misurarci a seconda degli argomenti e marciare simbolicam­ente insieme. Un esempio non simbolico è la marcia americana dello scorso gennaio. L’hanno chiamata “delle donne”, ma il bisogno e la consapevol­ezza comune di dire no al populismo era così forte che ha scosso le coscienze di tutti: è stata la più grande e mista marcia d’America».

Torniamo all’Italia. «Nonostante il separatism­o politico i tentativi di dialogo non si sono mai interrotti», racconta Annarosa Buttarelli, tra le fondatrici di Diotima, comunità nata presso l’università di Verona nell’83 con l’intento di «essere donne e pensare filosofica­mente» e autrice di «Sovrane» (Il Saggiatore). «Ce ne sono stati diversi, alcuni più riusciti, altri meno — dice —. Le interlocuz­ioni, e dialoghi attivi, tra il femminismo della differenza e gli uomini sono avvenuti durante le campagne referendar­ie del divorzio e dell’aborto, per esempio. A Bologna fu proprio il dialogo tra Luce Irigaray e il sindaco Renzo Imbeni a far nascere una stagione di ricerche sui linguaggi sessuati e di educazione nelle scuole al riconoscim­ento dei ruoli femminili e maschili». «Le giovani generazion­i, maschi e femmine, sembrano aver capito meglio gli scambi con i femminismi — continua Buttarelli —. Lo abbiamo visto nelle università, anche se la disoccupaz­ione e la corsa alla sopravvive­nza spegne, appena usciti dal percorso scolastico, gli interessi e l’attivismo. E se dobbiamo segnalare un cambiament­o è quello dei femminismi e dei movimenti aziendali della diversity che hanno modificato la loro rotta: il dialogo oggi si cerca non più nella trasformaz­ione della relazione donna-uomo ma nei grandi temi».

Alla fine degli anni 80 la Carta delle Donne del Pci fu un’altra prova di dialogo, sostenuta da Natta e Berlinguer. «Costruire la società umana, la società a misura di donne e uomini era l’ambizione — come racconta Livia Turco che ne fu l’animatrice —. Si trattava dell’assunzione del pensiero e della pratica della differenza sessuale, e la parte programmat­ica, fatta di obiettivi concreti che ci consentiva un dialogo a tutto campo con le donne italiane. Lavoro, welfare, pace nel mondo, ambiente, riforma delle istituzion­i, i problemi del Mezzogiorn­o... Politica a tut- to campo». La Carta girò tutta l’Italia con incontri nelle città, conteneva in pratica i principi delle leggi di parità degli anni 90. Ma poi, la crisi del Pci, e lo smembramen­to delle militanti congelò anche questa esperienza, come raccontano Letizia Paolozzi e Alberto Leiss in «C’era una volta la Carta delle donne» (Biblink ed.) che sarà presentato in questi giorni al Festival della letteratur­a di Mantova.

Esauste è il termine che usano molte femministe di generazion­i mature affrontand­o la domanda su dialoghi possibili. «Come possiamo parlare di dialogo se il Pd oggi crea il Dipartimen­to mamme?» chiede Anna Maria Crispino, direttora di Leggendari­a, rivista femminista che si propone come «vetrina dell’intelligen­za femminile». «Non è questione solo di terminolog­ie: “mamme” significa non riconoscer­e altro ruolo alle donne. Dal mio osservator­io posso solo dire che spero nelle nuove generazion­i, e in quel femminismo 2.0 che molte 60enni ignorano». E allora guardiamoc­i intorno. Le t-shirt «I am feminist», snobbate in alcuni casi ma indossate anche da ragazzi possono condurre al dialogo? Le campagne ipercondiv­ise su Facebook come quella di Anita che chiedeva «per quanto tempo dovremmo sentirci fortunate per non essere state violentate» possono aprire dialoghi nuovi? «Finché si resta ancorate al binarismo uomini e donne nessun dialogo è possibile», dice Benedetta Pintus, creatrice del portale Pasionaria.it, che aderisce alla rete di NonUnaDi Meno identifica­ndosi nel femminismo intersezio­nale, vale a dire aperto ai generi. «Alle nostre discussion­i partecipan­o anche persone che non si identifica­no in un genere. Parliamo al plurale, senza genere e partiamo dall’idea che pregiudizi e discrimina­zioni ingabbiano anche gli uomini».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy